E’ abbastanza naturale che Matteo Renzi punti ad avere come presidente della Repubblica una figura del suo partito e che sul piano formale appaia a lui subalterna, ovvero uno qualsiasi dei membri del governo che abbia compiuto cinquant’anni: da Delrio a Padoan, dalla Pinotti a Gentiloni o Franceschini. Non si tratta di protagonismo personale, ma della necessità di essere “coperto” nel rinnovamento istituzionale avviato. 



Il nuovo inquilino del Quirinale avrà infatti, come immediato e principale impegno, il dover gestire la fuoruscita dal quadro costituzionale originariamente definito. Con buona pace per la retorica della “Costituzione più bella del mondo”, è ormai evidente che la vita parlamentare e istituzionale di oggi ha ben poco a vedere con quanto si era immaginato e sancito nell’Assemblea Costituente tra il 1946 e il 1947.



L’indubbio successo di Matteo Renzi è nell’aver saputo coniugare “rottamazione” e “costi della politica”. A furor di popolo il segretario fiorentino del Pd ha interpretato e attuato questa generale richiesta di procedere “a colpi di accetta”: taglio delle istituzioni, taglio degli eletti, voti di fiducia, decreti legge, leggi delega secondo un processo di accentramento decisionale in un esecutivo omogeneo — una sorta di staff personale — ridimensionando il Parlamento.

A sostegno del “decisionismo” di Renzi c’è anche il comportamento dell’opposizione, soprattutto dei 5 Stelle. Beppe Grillo non è certo Palmiro Togliatti che come leader dell’opposizione si presentava in doppiopetto a Montecitorio — per quasi vent’anni sempre allo stesso posto (quinto banco, primo settore) — richiamando De Gasperi o Fanfani alla centralità del Parlamento. Nel pieno della “guerra fredda” la discussione sul Patto Atlantico nel 1949 durò sei giorni con solo 7 interventi del Pci e senza “sedute fiume” né notturne. Oggi lo spettacolo di un’opposizione che in aula mette in scena su qualsiasi argomento la protesta di piazza, esercita un ostruzionismo quotidiano, usa il turpiloquio, si sdraia sui banchi del governo, fa volare gli aeroplanini di carta, accredita nell’opinione pubblica la convinzione che l’aula parlamentare non è più un luogo dove si possa seriamente discutere e decidere. 



E’ evidente il logoramento di un modello tradizionale di democrazia imperniata su decentramento e partecipazione e non è solo italiana l’esigenza del suo superamento a vantaggio di un sistema decisionale più “competitivo” nel quadro dell’attuale bellicosa globalizzazione e cioè: maggiore accentramento e tempi più rapidi di decisione.

Finora con Renzi si è proceduto a strattoni passando in poco tempo da opzioni diverse senza un quadro organico. Ora il processo di riforme istituzionali e costituzionali deve trovare un assetto unitario razionale.

Gli altri due “fronti” aperti, accanto a quello del nuovo assetto costituzionale, sono quelli dell’economia e dei rapporti internazionali su cui diventa determinante la figura del successore di Napolitano data la vulnerabilità di Renzi in proposito. 

Il premier ha dimostrato molte qualità, ma è indubbio che nel momento di massima crisi economica abbiamo un premier abbastanza a digiuno in economia. La preoccupazione naturale di Palazzo Chigi è quella di avere un Quirinale pronto a fare “muro di gomma” se la ripresa economica immaginata dopo “cento giorni” di governo dovesse tardare anche nei prossimi mesi.

D’altra parte c’è però la necessità di avere al Quirinale una personalità affidabile per le cancellerie soprattutto occidentali ed europee. Al di là della benevola enfasi mediatica nostrana, il semestre di presidenza di turno non ha certo rafforzato Renzi sulla scena europea. E’ vero che le presidenze di turno contano poco, ma Renzi è stato l’unico a non essere stato capace di organizzare un solo vertice. Il “Consiglio straordinario su crescita e occupazione” a Milano — convocato, rinviato, poi disdetto e in extremis confermato — si è risolto in un “pasticciaccio”: una riunione informale dove il primo giorno è girato a vuoto con l’assenza dello stesso premier italiano e il secondo giorno si è risolto in una improvvisata conferenza stampa di Renzi e Hollande a cui si è aggiunta la Merkel all’ultimo momento e che non avendo nulla da dire sui lavori svoltisi si è tradotta in una bonaria successione di banali dichiarazioni. Infine il discorso conclusivo di Renzi al termine della sua presidenza si è svolto nell’aula deserta di Strasburgo, “snobbato” dai gruppi degli altri paesi. In sostanza il premier italiano — inizialmente accolto con simpatia, curiosità ed anche timore — esce da questa esperienza indebolito e isolato, senza essere riuscito a costruire un solo rapporto preferenziale con un altro premier europeo.

Nuova Costituzione, economia e politica estera sono quindi i terreni su cui si gioca la “partita” del Quirinale tra Renzi, che punta ad avere le “mani libere”, e chi vuole invece condizionarlo. 

In partenza — con la minaccia dello scioglimento anticipato delle urne e con Berlusconi con limitato potere deterrente — la vittoria dell’ex sindaco di Firenze sembra molto probabile. Naturalmente lo scoglio principale è l’unità del Pd. E’ da vedere se i principali oppositori faranno un’opposizione frontale. Non è però escluso che leader come D’Alema e lo stesso Bersani piuttosto che subire un “subalterno” di Renzi non optino su nomi come quello di Giuliano Amato. Berlusconi si è sin dall’inizio espresso a suo favore e se D’Alema sostenesse la candidatura di chi lo affianca nella sua Fondazione ItalianiEuropei risulterebbe ancora con “voce in capitolo” sulla scena nazionale. Per Renzi sarebbe infatti ben difficile opporsi potendo così comunque vincere la scommessa dell’elezione al quarto voto salvaguardando, al tempo stesso, Nazareno e unità del Pd. 

D’Alema ha appunto convocato deputati e senatori presso la sede di ItalianiEuropei. Bisogna vedere quanti lo andranno a sentire.