L’unico punto fermo lo ripete come un mantra Lorenzo Guerini: il Pd non è autosufficiente, non può eleggere il presidente della Repubblica da solo neppure al quarto scrutinio. L’aritmetica è impietosa al riguardo: i grandi elettori espressi dalla forza di maggioranza relativa non arrivano a 450, di voti ne servono 505. Certo, fa molta differenza se quei 450 voti sapranno muoversi compatti (o quasi), oppure se si sfilacceranno nel segreto dell’urna, visto che i gruppi parlamentari sono gli stessi che mandarono in scena la tragicommedia dei 101 che impallinarono Romano Prodi.
Da questo punto parte la difficile scommessa di Matteo Renzi, ben conscio che saranno suoi sia i meriti di una scelta azzeccata, sia i demeriti di un altro patatrac stile Bersani. Il premier segretario si muove cauto per non lasciare spazio agli agguati. Continua ostinatamente a non fare nomi per evitare che siano bruciati prima che si aprano le danze. Sa anche che è bene non promettere il miracolo di un risultato positivo alla prima votazione, quindi meglio aspettare la quarta, o anche la quinta. Il tentativo che sta compiendo è di tessere una tela politica che regga la prova dell’aula.
I nemici più agguerriti e, insieme, più insidiosi sono i più vicini, cioè gli esponenti del suo stesso partito. Se i voti di Forza Italia e dei centristi di Area Popolare (Ncd, Udc e dintorni) fossero sostitutivi di mezzo Pd in rivolta contro il proprio leader, allora sarebbe inevitabile una sanguinosa resa dei conti interna dopo le elezioni presidenziali. Se invece a differenziarsi fosse un manipolo di parlamentari, alla fine la scissione, che in molti danno per inevitabile, sarebbe poca cosa. Se uscissero Civati, Mineo e pochi altri, anzi, forse Renzi non sarebbe poi così dispiaciuto.
Chi non sembra avere alcuna intenzione di andarsene è Pier Luigi Bersani, e probabilmente quello con il suo predecessore potrebbe essere l’incontro più delicato fra quelli che il presidente del Consiglio avrà nelle prossime 48 ore. L’operazione tutt’altro che facile è l’individuazione di un nome che sia votabile tanto dalla sinistra interna di obbedienza bersaniana, quanto da Berlusconi e soci. In verità un nome ci sarebbe, quello di Giuliano Amato, il primo avanzato dal leader di Forza Italia, che stava anche nella “rosa” che due anni fa sarebbe stata fatta circolare dall’ex segretario Pd (e poi smentita). Voci di corridoio parlano addirittura di contatti diretti tra Bersani e Berlusconi, ma non ci sono conferme.
Amato, però, porta con sé l’handicap di non avere un forte appeal popolare. Il prelievo forzoso sui conti correnti del luglio 1992 sono in tanti a ricordarlo. Per questo la partita è lontana dal potersi considerare chiusa, e la girandola dei nomi dei “quirinabili” continua incessante, e si arricchisce ogni giorno di nuove ipotesi, Finocchiaro, Veltroni, Mattarella, Rutelli, Chiamparino, e altre ancora.
Per paradosso, ma non tanto, Renzi potrebbe avere meno difficoltà a raggiungere un’intesa con Berlusconi, con cui di sicuro i contatti non si sono mai interrotti. Un segnale chiaro è l’accordo anche sulle modifiche profonde che Renzi ha voluto alla legge elettorale. Il “soccorso azzurro” è stato decisivo a Palazzo Madama per rendere inoffensivi gli insidiosi emendamenti di Miguel Gotor. Così decisivo da far dire a Paolo Romani che i voti dei senatori di Forza Italia “hanno sostituito” quelli dei dissidenti democratici. Parole corrispondenti al vero, ma sgradite all’inquilino di Palazzo Chigi.
Probabilmente Renzi e Berlusconi si vedranno due volte in poche ore, sia prima del giro ufficiale di consultazioni che il Pd avrà martedì con tutti i partiti, sia nella sede ufficiale. In fondo, a Berlusconi pochi nomi sono davvero sgraditi (Prodi in primis). Per il resto, basta che abbia qualche rassicurazione sulla possibilità di recuperare gradualmente l’agibilità politica.
A facilitare il lavoro a Renzi il chiamarsi fuori dalle consultazioni del Movimento 5 Stelle. In questa decisione forse ha pesato il timore di una spaccatura dei portavoce in Parlamento. Di certo ancora una volta Grillo e Casaleggio rinunciano a entrare nella partita per cercare di condizionarla, una scelta che regala al premier la ragione per tessere un dialogo esclusivamente con il centrodestra.
Forse dentro la galassia grillina qualcuno deve essersi accorto del passo falso, al punto dall’aver tentato di evitare l’irrilevanza sfidando i democratici a dare una rosa di nomi da sottoporre alla rete in tempo utile per sostenere il più votato sin dalla prima votazione. Se di vera retromarcia si tratta arriva forse fuori tempo utile. Renzi non ha alcun bisogno dei grillini, a differenza di Bersani che tentò di giocare due anni fa su due tavoli contemporaneamente. A lui bastano i voti berlusconiani, a patto che non ne perda troppi dei suoi. Con questo spirito giocherà le sue prossime mosse sullo scacchiere del Colle.