Questo pezzo non può essere il commento a questi giorni, non può essere pubblicato come un’analisi vera perché buona parte di quello che qui è descritto non è mai successo, eppure – con meno miopia e più capacità di reazione – la storia poteva andare proprio così. Perché a volte un racconto dice più di mille commenti.



Sono bastati tre giorni per cambiare radicalmente il quadro della politica italiana: giovedì mattina il governo Renzi marciava felice in carica e, con un tweet dopo l’altro, seminava promesse esibendo forza e imbattibilità. Settantadue ore dopo di quel governo e di quel partito resta poco o niente e dall’altra parte, sulla riva del fiume, Silvio Berlusconi contempla l’ennesimo segretario che passa, l’ennesimo nemico travolto dalla forza di una strategia e di un’astuzia che è ancora capace di riportare il centrodestra non solo a vincere, ma ad essere determinante per le scelte del nostro paese. Per capire questo capolavoro – anzitutto politico – ricostruiamo tutto con ordine.



Giovedì nel primo pomeriggio Renzi raduna i grandi elettori del Pd e annuncia, spiazzando tutti, che il candidato secco al Quirinale del partito sarà Sergio Mattarella, cattolico democratico e con un curriculum decisamente agli antipodi dal gusto berlusconiano. Giornalisti e commentatori annunciano lo strappo al Patto del Nazareno, il doppio gioco del presidente del Consiglio e lo sconquasso dell’intero arco politico che aveva portato ad approvare nell’ultimo anno le riforme costituzionali e la legge elettorale. Renzi, ottenuto il via libera entusiasta e unanime del suo partito, cerca subito una convergenza con i voti di Sel e Scelta Civica per eleggere il presidente della Repubblica alla quarta votazione, ma – nel giro di mezz’ora – arriva la prima doccia fredda. Berlusconi, infatti, segue la situazione in tempo reale e – riunito con l’assemblea dei grandi elettori di Forza Italia – emana un comunicato sorprendente a firma congiunta dell’ex Cavaliere e dell’ex delfino Alfano: “Forza Italia e Area Popolare, preso atto della scelta del presidente del Consiglio, pur non condividendo il metodo con cui si è addivenuti a questa scelta, nello spirito del patto stipulato per le grandi riforme, scelgono di far convergere i propri voti su Sergio Mattarella quale loro candidato alla Presidenza della Repubblica”. 



Le dichiarazioni successive sono ancora più eclatanti: Forza Italia commenta che “questo è lo spirito di collaborazione del Patto del Nazareno”, Berlusconi invita a “non far perdere altro tempo agli italiani” e annuncia che farà votare Mattarella fin dalla seconda votazione. Alfano incalza il premier invitandolo a non sprecare altro tempo per una decisione così unanime e a dimostrare la reale volontà di eleggere il presidente con la più larga maggioranza possibile, presentandosi alle Camere già venerdì mattina. Renzi esita: se accetta ha paura dei giochetti forzisti, se rifiuta è destinato ad apparire per Mattarella come uno sponsor di secondo piano rispetto al centrodestra e di non controllare più i suoi gruppi parlamentari, che potrebbero eleggere il settantreenne ex democristiano anzitempo e senza il placet del premier. 

Alla fine la segreteria del Pd alle 18 accetta. Sel e la Lega si chiamano fuori dal presidente del Nazareno, i 5 Stelle – dopo una nuova consultazione on line – scommettono su Prodi. La prima votazione del venerdì è tragica: Mattarella non supera il quorum e Berlusconi annuncia a sorpresa di aver fatto siglare i voti forzisti e di Area popolare con la dicitura “Mattarella S.”. Le defezioni, a quanto pare arrivano tutte dalla minoranza dem, Prodi oltrepassa i 200 voti e Renzi convoca d’urgenza l’Assemblea dei grandi elettori del Pd. 

Sono in tanti a non voler “fare il presidente con l’entusiasmo di Berlusconi” e la minoranza chiede apertamente al leader del partito di sostenere Prodi. Ma Renzi lo aveva detto chiaro il giorno prima: “Con Mattarella si parte e con Mattarella si arriva. Dopo di lui non ci sarà un altro candidato del Pd”. Il premier tira dritto e alla terza chiama, Mattarella non raggiunge neanche i 600 voti fermandosi a quota 584. Il Pd rivive lo psicodramma del 2013 e Berlusconi avverte che – in queste condizioni – bisogna trovare un altro nome. È la sera più lunga per il segretario, fagocitato ancora una volta dalle correnti interne ossessionate dall’antiberlusconismo. L’ex Cav sente Renzi e certifica con Alfano il tramonto definitivo di Mattarella. Ma la terza mossa sparigliante, dopo quella di aver accettato Mattarella e di averlo voluto fin dalla seconda votazione, è sempre di Berlusconi: dopo un lungo contatto con Bersani propone a Renzi o Amato o Veltroni. 

Alfano lo annuncia pubblicamente e la minoranza dem si divide. Berlusconi parla di presidenza di “riconciliazione nazionale” e di occasione storica per il parlamento. Renzi è con le spalle al muro e chiede ancora una volta il voto per Mattarella. Sabato mattina, alla quarta chiama, il candidato del premier arriva terzo dopo Veltroni e Prodi. È allora che da Arcore si rompono gli indugi e si sceglie di puntare su Veltroni, il primo segretario del Pd che mai porterebbe il paese alle urne e che ha come primo obiettivo il completamento del cammino delle riforme. Con 587 voti Veltroni sabato pomeriggio passa e viene eletto. Sotto le macerie, ancora una volta, restano il Pd e il suo ormai molto ammaccato segretario che si trova con un governo dipendente da Forza Italia. Il vero vincitore è quindi ancora una volta “il condannato di Arcore”, colui che ora punta a riunire i moderati italiani e a tornare al tavolo delle riforme con un ben altro potere contrattuale, il potere di veto.

Queste cose non sono accadute perché c’è una classe dirigente liberal popolare che prende le decisioni non col senno di chi ha una strategia politica, ma con la sprovvedutezza di chi si lascia guidare dalle emozioni e dalle reazioni del momento. 

Il centrodestra, insomma, in Italia non esiste più. Avrebbe potuto giocare benissimo questa partita senza perdere la lucidità ubriacandosi con i commenti dei giornalisti, avrebbe potuto rinascere e avrebbe potuto stravincere. Ma finché non ci saranno veri leader, e una nuova classe dirigente, i moderati italiani saranno destinati al triste destino di una mancata o – ancor peggio – frustrata rappresentanza, ininfluente per la società e per il futuro del paese. Da oggi, infatti, non importa chi siede sul Colle più alto, esso non è più il punto nodale delle istituzioni: infatti il potere, quello vero, – da adesso in poi – passa solo dalle parti di Palazzo Chigi.