L’affannarsi di leader di partito, di opinion maker, di esponenti della società civile attorno al Quirinale non è affatto strano. II dilemma che sta di fronte è secco: o l’esito positivo della transizione politico-istituzionale in corso o il ritorno conservatore all’Italia di sempre. E’ vero che il compimento della terza repubblica, sempre che si realizzi, renderà sempre più “inutile” la figura del presidente, perché verrà sagomata su funzioni di semplice rappresentanza.
Giorgio Napolitano ha tentato, fin dal suo primo mandato e più decisamente in questo suo secondo, di accompagnare la transizione politico-istituzionale, condividendone il traguardo, non senza qualche incertezza. Non deve essere stato facile per lui, uomo che affonda le proprie radici nella “repubblica dei partiti”, operare il salto verso la pratica di un sistema di fatto neo-presidenziale. Assiso sul colle più alto della repubblica, si è reso conto dell’impotenza della politica sia sul piano nazionale sia verso l’Europa e il mondo e dei prezzi che questa fa pagare al Paese, non solo in termini di “antipolitica”, ed ha finito per interpretare il proprio ruolo in senso decisamente più “presidenziale”. In zona Cesarini gli è riuscito di proteggere il percorso che porta all’abolizione del bicameralismo perfetto e ad una nuova legge elettorale.
Ma la stanchezza fisica dei novant’anni gli impedisce ormai di continuare a “sorvegliare” lo svolgimento tortuoso e troppo lento dei vari passaggi futuri. Diversamente da Pertini, non aveva smaniato per un secondo nuovo mandato.
In ogni caso, proprio la relativa indeterminatezza e incompiutezza dell’approdo rende ancora decisiva la figura del prossimo presidente della repubblica. Di questo sembra assai più consapevole “la società politica” rispetto alla “società civile”. Serve un uomo esperto di istituzioni, di amministrazione, di partiti, così come sono oggi, per traghettarli verso un nuovo sistema politico-istituzionale, che consegni alla politica non solo la rappresentanza, ma anche e soprattutto la capacità di decidere, e riconduca i partiti in un alveo più “civile”, più soggetti della società civile che padroni delle istituzioni.
Far uscire la politica dalla palude dell’impotenza è la condizione per la quale i soggetti socio-economici e culturali della società civile escano, a loro volta, dalla morta gora dei meccanismi corporativi e della paralisi. Impotenza politica e ipertrofia corporativa sono le due facce della stessa medaglia. Una politica forte è la precondizione per una società civile forte, nella quale i corpi intermedi svolgano un ruolo creativo rispetto al futuro del Paese. Antonio Socci, da ultimo, ma parecchi altri prima e forse dopo di lui, insistono, viceversa, su una presidenza “professionale” e “valoriale”: il volontario, lo scienziato, il medico, il filantropo, l’ecologo, il magistrato antimafia…
Socci su Libero ha proposto per il Colle la dott. Paola Bonzi, che ha fondato trent’anni fa il Centro di aiuto alla vita alla Clinica Mangiagalli di Milano. Il Centro ha assistito migliaia di donne (17.846 dal 1984 ad oggi), che incerte sull’abortire o no, hanno scelto alla fine di far nascere il proprio figlio, avvalendosi dell’assistenza psicologica e economica del Centro. Ora, Socci non può ignorare che il metodo che lui propone può portare a individuare — da parte di altri — una persona che sta all’opposto del suo sistema di valori. E cita Gino Strada.
Il “metodo Socci”, oltre a non approdare ad una figura che sia in grado di governare la transizione, soffre di una tara più radicale: quella per cui il Colle debba servire non solo a togliere da sotto il moggio la fiaccola di uno dei tantissimi esempi professionali e civili straordinari, ma soprattutto a “garantire” istituzionalmente un sistema di valori. Insomma, un approccio ideologico, che, in quanto tale, suscita reazioni simmetriche e approdi di tipo opposto.
E’ questa l’essenza della filosofia hegelo-marxiana, in forza della quale un sistema di valori è tale solo se si ancora allo Stato. O, se si preferisce, è l’esito di ogni integralismo, quale che ne sia il segno. Ora, se una lezione si deve trarre dal “secolo ideologico” che abbiamo alle spalle, è che nessun sistema di valori può sottrarsi al destino di finitezza che caratterizza la condizione umana e le società civili. Non c’è nessuna garanzia supplementare per chi opera il Bene.
La riproduzione dei valori non è opera dello Stato, ma dell’azione incessante dell’educazione. Il che non significa sostenere la tesi di una strutturale avalutatività o neutralità etica delle istituzioni e della stessa figura del presidente della repubblica. Solo che serve una figura che garantisca il massimo delle libertà e del pluralismo per le etiche che si affrontano nell’arena civile, nell’alveo dei principi della prima parte della Costituzione del 1948. Insomma: la battaglia si vince o si perde nella società civile. Tutto il resto è grazia.