E’ un uomo anziano quello che appare dagli schermi della televisione, sorretto dalla dignità del ruolo che ricopre e da una vita spesa al servizio dei valori che lo hanno portato a essere quello che è. Ma è un uomo anziano, che più che fare un discorso rivolto al futuro della nazione sembra guardarsi indietro, a tratti con commozione, al passato suo e del suo popolo, come se stesse cercando di comunicare qualcosa che non è possibile esprimere solo a parole. Il presidente della Repubblica lo dice anche apertamente: sono stanco, non sono più sicuro di poter svolgere il ruolo che i padri della Costituzione mi hanno affidato. E allora, aggiunge, fra poco me ne andrò. 



Per una volta, le parole di Giorgio Napolitano, nel discorso del massimo rappresentante della politica italiana, fanno prevalere il senso e il significato del proprio essere uomini, prima del ruolo di cui è stato investito dalla storia. Lo si capisce quando, evidentemente commosso, cita alcune persone a cui invita a guardare, più che a una politica che a fine 2014 sembra sempre più smarrita e incapace di incidere nella vita degli uomini. Una è Samantha Cristoforetti, l’astronauta italiana che già aveva spinto Napolitano alle lacrime qualche giorno prima quando, in collegamento con i militari italiani nel mondo, il capo dello Stato l’aveva salutata: “Penso che questa sua straordinaria partecipazione alla missione spaziale sarà un incentivo per gli italiani per capire che cosa importante sia impegnarci anche nelle tecnologie e nelle ricerche spaziali… Non la chiamerò Capitano Cristoforetti perché oramai lei è Samantha per tutti gli italiani. Buon Natale e buon anno”.



Per qualcuno il discorso di Napolitano a fine anno è stato deludente, dimenticandosi forse che i suoi nove anni a capo dello Stato sono stati tra i più difficili della storia della Repubblica italiana: “Ho fatto del mio meglio, in questi anni travagliati ho difeso l’unità nazionale” ha detto. Qualcuno dimentica anche che contro Napolitano era stato chiesto l’impeachment, lo stato di accusa, le dimissioni per attentato alla Costituzione repubblicana, e che, per la prima volta, un presidente della Repubblica è dovuto comparire davanti ai giudici in un processo, quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.



Di fronte a tutte queste difficoltà e alla natura dei suoi detrattori (dai mancati riformatori che, con promesse di liberalizzazione dell’Italia, l’hanno bloccata per anni asservendola a interessi privati, ai massimalisti per cui tutta l’Italia repubblicana è storia di malaffare, ai nuovi sfascisti del “tanto peggio tanto meglio”), non bastava un uomo delle istituzioni. Ci voleva una persona che si tirasse fuori dalle fazioni per incarnarsi nell’Italia popolare, quella capace di unirsi nel pluralismo, nel lavoro, nel sacrificio, nella ricerca continua del bene comune.

L’Italia che Napolitano, insieme a papa Ratzinger, ha ricordato durante l’anniversario dei 150 anni dell’unità, ricomponendo lo steccato storico del Risorgimento e riconoscendo il ruolo dei cattolici a fianco di socialisti e liberali nella costruzione dell’Italia moderna. La stessa Italia del popolo che continuamente rinasce nei corpi intermedi, quando non diventano corporazioni che difendono solo i propri interessi, ma luoghi di educazione della persona, come ebbe a dire nel più volte ripreso discorso al Meeting di Rimini del 2012.

Ma allora, che eredità e che compito, umano prima che politico, ci lascia Napolitano?

Qualche ora dopo le sue parole, sugli schermi televisivi è apparso un capitano di vascello, uno degli uomini della Marina militare italiana che ha partecipato alle operazioni di soccorso dei naufraghi del traghetto incendiato Norman Atlantic. “Abbiamo dovuto usare gli elicotteri, dice, perché il mare era troppo agitato per andare con le scialuppe di salvataggio”. Sceso sulla nave avvolta dai fumi tossici, il capitano racconta di aver aiutato i naufraghi a salire sull’elicottero. Un’operazione lunga e difficile. “Avevano paura?”, chiede la giornalista. “Sì, avevano paura — risponde — ma io ho cercato di fare loro coraggio. Li ho presi uno per uno per la mano, sorridevo, oppure facevo loro l’occhiolino per incoraggiarli”. La voce dell’uomo si spezza: “dicevo loro: non abbiate paura, vi porto a casa”. Nei suoi occhi le immagini di quei momenti non sono passate e probabilmente non passeranno mai. “Li ho portati tutti a casa”, dice alla fine tra le lacrime.

E’ a questi esempi che ci rimanda Napolitano. A superare ideologie di destra e di sinistra, teoriche, edoniste o di bottega, a uscire dal nostro particolare egoista per avere il coraggio di buttarsi in questa Italia disastrata, cercare il proprio destino positivo e aiutare con il nostro lavoro e il nostro impegno quelli intorno a noi a fare lo stesso. Un cammino che non segue schemi risaputi, non può avvenire per caso, o in modo facile, perché nessuno di noi è “a posto”.

Occorre, come ha saputo fare Napolitano, andare al di là della propria storia e delle proprie appartenenze per ritrovare, con l’aiuto di chi ci è intorno, l’irriducibile desiderio di bene, di costruzione, di sacrificio che ci appartiene. Forse e questo quel qualcosa che le parole non possono esprimere.

In fin dei conti, questa è l’eredità più bella, vera e duratura della storia del nostro Paese, che non è mai stato potente ma, nella sua radice è profondamente umano. Un Paese che Napolitano ha cercato con tutte le sue forze di re-insegnarci ad amare.