Il nuovo anno è iniziato con gli stessi problemi con cui è finito il vecchio, e cioè con l’Italia dentro una duplice instabilità politica: europea e nazionale, strettamente collegate.
Quella europea è legata alle fratture interne all’Unione europea tra gli Stati e a quelle interne agli Stati tra europeisti e antieuropeisti. Ciò determina, di fatto, un’incapacità a porre rimedio alla crisi: gli indicatori economici dell’eurozona sono sconfortanti e la lettura delle osservazioni della Commissione sulle leggi di stabilità italiana e francese dimostrano quanto ancora siamo indietro. Anche se la Germania concede più alla Francia che non all’Italia o alla Grecia, la sua posizione — in via di principio giusta — diventa ogni giorno sempre più inadeguata.
È indubbio che spetti agli Stati non in regola con il patto di stabilità dimostrare che sono capaci di recupero; nessuno può fare al posto degli italiani, dei greci e, ora, anche dei francesi quello che deve essere fatto. Questi sono gli impegni assunti.
Ma se il rispetto di questi impegni non rappresentasse la giusta terapia, sin dove si può insistere? Non diventa necessario pensare positivamente a soluzioni diverse?
Questo vuol dire che i trattati si possono riformare e che l’ipotesi di una federalizzazione di una buona parte degli Stati europei, come sostenuto da Valéry Giscard d’Estaing, Helmut Schmidt e da Joschka Fischer, appare una via da prendere in seria considerazione; anzi, per la zona euro questa prospettiva sembra decisiva.
In un sistema federale ci sarebbero minori controlli sugli Stati membri di quanti non ve ne siano adesso da parte dell’Unione europea e s’incrementerebbe la responsabilità di ogni governo nazionale. Con la federalizzazione dell’Unione europea nessuno sarebbe chiamato a pagare i debiti degli altri, come qualcuno impropriamente teme, ma si darebbe alle istituzioni europee e, in particolare, alla Bce la possibilità di fare una vera e propria politica economica anticiclica che consentirebbe la ripresa: esattamente quello che ha fatto gli Stati Uniti e che non ha potuto fare l’Unione europea.
Si capisce che per realizzare ciò occorre: convincere i capi di Stato e dei Governi degli Stati membri (o una buona parte di questi); costruire una democrazia e un governo europeo, che mancano (soprattutto il secondo); e incrementare il bilancio dell’Unione europea dall’1% del Pil ad almeno il 4-5% del Pil europeo.
Sino a quel momento la linea politica europea è recessiva e nessuno si aspetti sconti o sostegni. L’ipotetico piano della Commissione Junker non ha risorse sufficienti; i 300 mld di cui tanto si favoleggia, in realtà, non sono soldi veri, se non in piccolissima parte (15 mld); per il resto sono solo speranze.
Se è così, la linea sulla flessibilità del Governo italiano, che sembrava forte all’indomani delle elezioni europee, è ormai molto debole e lo sarebbe anche se qualche altro governo (come quello futuro greco) dovesse chiedere la rinegoziazione dei debiti.
Il Governo chiede flessibilità per gli investimenti, ma non cofinanzia i fondi strutturali che permetterebbero subito una spesa di circa 25-30 miliardi di euro e alla fine del 2015 dovrà restituire all’Unione europea qualcosa come 12 miliardi di euro. La pianificazione del nuovo ciclo 2014-2020, dove l’Italia è il maggiore beneficiario dei fondi, dopo la Polonia e molto prima di tutti gli altri, segna già la perdita di un anno (il 2014) e la persistente mancanza di un piano strategico che colleghi il Governo centrale alle Regioni e alla Città metropolitane. L’inefficienza della pubblica amministrazione (giustizia compresa) non è scalfita minimamente dai provvedimenti legislativi sin qui adottati e i suoi costi continuano a lievitare, come mostra l’aumento costante del debito. I nostri giovani, non necessariamente solo quelli eccellenti, ormai sanno che l’emigrazione è l’unica soluzione alla loro condizione in patria; e, di fatto, l’università e la ricerca continuano a essere definanziate. Ma da dove dovrebbero venire l’innovazione e la competitività del Paese?
Non sarebbe giusto criticare il presidente Renzi, anche se non si condividono alcuni principi che ispirano la riforma costituzionale e la legge elettorale; chi governa in questo momento è in un cul-de-sac.
Renzi ha il merito — non senza errori — di avere agito per ampliare il dialogo istituzionale (il “patto del Nazareno”), per stabilizzare l’azione del governo attraverso una forte volontà di discontinuità rispetto al passato, e per far pesare questa immagine a livello europeo. Su queste scelte ha avuto anche il sostegno del presidente Napolitano.
Ciò che al momento non sta reggendo è il Paese, la classe politica e — bisogna ammetterlo — anche gli italiani.
Cominciamo da questi ultimi. La crisi non ha modificato i comportamenti negligenti e asociali che ci caratterizzano; anzi, sembra accentuare il sentimento di anomia degli italiani (i vigili romani, i netturbini napoletani, ecc.). La classe politica, a prescindere dalla sua mediocre composizione, non sembra fare alcuno sforzo per dare un contributo alle vicende politiche; anzi, M5S e minoranza Pd — con annessi e connessi — sembrano accerchiare il governo, difendendo micro-interessi e/o sostenendo posizioni che non sono realistiche. Il Paese è attraversato da profonde lacerazioni e da un divario territoriale incolmabile, esaltato da vicende indicibili, come il crollo delle case nuove del dopo terremoto de L’Aquila e il cedimento delle autostrade appena aperte in Sicilia. Il divario genera posizioni politiche interne analoghe a quelle riscontrate in Europa, con le Regioni del nord, e le forze che le rappresentano, che pretendono che il loro gettito fiscale non sia sprecato a colmare i disavanzi e le inefficienze delle Regioni del sud.
Cosa può fare ancora per la politica italiana il presidente Renzi?
La linea intrapresa — come detto — non è senza meriti e il patto con Berlusconi va tenuto fermo per la prossima elezione del presidente della Repubblica; anzi, potrebbe essere necessario subito dopo incrementarlo, magari con forme più adeguate, per adottare provvedimenti e misure più forti.
Cosa può fare per un cambiamento concreto il presidente Renzi?
Un leader deve sapere “comandare” e — a tal riguardo — Renzi non ha problemi; ma un uomo di Stato deve sapere “governare” e ciò implica non solo la capacità di elaborare la strategia, ma anche la scelta delle persone che devono operare per realizzarla. Su entrambi questi versanti l’azione di Renzi è apparsa poco convincente. Non si tratta solo di progettare un piano più accurato del cambiamento, ma anche di realizzare un auspicabile rimpasto di governo e di allungare le panchine della politica, scegliendo personale competente e capace ed escludendo quanti vogliono salire sul carro del vincitore, che lo lascerebbero al primo avviso di burrasca.
Ciò assicurerebbe la realizzazione di innovazioni anche nel breve periodo e, in Europa, garantirebbe al Governo italiano una buona visibilità, come spesso accadeva nel passato, quando uomini di governo di grande qualità erano coadiuvati da persone di alto livello.