È davvero difficile – nel caso della norma fiscale cosiddetta “salva Berlusconi”- porre a confronto la spregiudicatezza del premier Matteo Renzi con la malafede di quanti hanno perduto durante la Seconda Repubblica tutte le loro battaglie: politiche, finanziarie e anche giudiziarie, visto l’esito del processo Ruby.



La questione resta una: elementare, brutale. La cosiddetta “Terza Repubblica”, cioè una nuova fase nella vita del Paese, non può cominciare se Silvio Berlusconi non avrà garanzie di un finale di partita (personale, imprenditoriale e politico) diverso da quello di altri premier italiani. L’ultimo è stato Bettino Craxi: morto da ricercato in Africa.



Il leader del Psi – artefice delle fortune economiche del Cavaliere – nel 1992 tentò di affrontare a viso aperto la piena di Mani Pulite. Sollecitò una riflessione interna alla classa politica e una soluzione politica per il problema della corruzione; una ricostruzione del muro definitivamente marcito fra politica e affari. Craxi non ce la fece: non aveva più la legittimazione politica minima per farcela e fu comunque travolto dalle cariche giudiziarie e mediatiche e da un personaggio ambiguo e misterioso di nome Antonio Di Pietro. Dal diluvio emerse Berlusconi: che vinse nettamente tre elezioni democratiche su cinque e ne perse una per un pugno di voti.



Questo grazie anche a una posizione di totale conflitto d’interessi nell’industria media (mai sanata peraltro neppure dal centrosinistra al governo), ma anche sotto l’attacco compatto e incessante di una magistratura ideologica e militante: che con Berlusconi ha spesso teso inevitabilmente a criminalizzare ampi settori dell’imprenditoria. Per non parlare di tutte le legislazioni “di classe” sul fronte dell’evasione fiscale (l’editoriale de Il Sole 24 Ore di ieri rammentava i disastri compiuti dalle vecchie norme “manette agli evasori”: nessun beneficio di gettito e tanti pregiudizi per lo sviluppo di una moderna democrazia tributaria).

In ogni caso, all’inizio del 2015 Berlusconi è ancora il leader dell’opposizione ed è determinante nel sostenere l’esperimento Renzi di transizione alla Terza Repubblica. E non è colpa del Cavaliere se Giorgio Napolitano (rieletto col pieno appoggio del centrodestra) deve lasciare ora il Quirinale sotto i colpi dell’età, ma anche della fatica di essere stato interrogato al Quirinale dai magistrati di Palermo sulla presunta “trattativa Stato-mafia”. I voti di Berlusconi sono d’altronde necessari per l’elezione di un presidente con una maggioranza parlamentare propria (a meno di non dare via libera, stavolta, a uno Stefano Rodo-tà-tà, magari rivestito dalle insegne greche di Syriza).

Il new comer Renzi ha provato a tirar diritto, a far valere quel “primato della politica” che Craxi si era già giocato prima di rivendicarlo. Ovviamente l’ha fatto per rafforzare la sua leadership ancora magmatica, nel Pd, in Parlamento e nel Paese. E comunque sia andata con il codicillo “salva Berlusconi”, il Premier ha il torto oggettivo di non essere riuscito nel suo intento, patendo un serio scacco d’immagine in un momento delicato.

Però la questione resta una: elementare e brutale. Se qualcuno ha ricette utili a risolverla (non con Piazzale Loreto) o anche solo ad aggirarla ha diritto di provarci quanto Renzi. Ma se l’obiettivo – venato di moralismo politico e di revanchismo in cattiva fede – rimane quello di issare al Quirinale un magistrato-siciliano-di-sinistra come il presidente del Senato Piero Grasso o l’ex capogruppo Ds al Senato Anna Finocchiaro, dubitiamo che i franchi tiratori della Terza Repubblica stiano facendo il “bene del Paese”. Come non l’ha mai fatto Di Pietro.