Meno male che Silvio c’è. Caduto in desuetudine per evidente flop di consensi, il vecchio e ormai obsoleto refrain forzista sopravvive grazie a Matteo Salvini, se non altro per un elementare senso di gratitudine: il rampante leader della Lega deve in larga misura all’ondivago comportamento politico dell’ormai ex Cavaliere, e alla pesante crisi di quel che resta del Pdl, i propri successi elettorali; e in particolare il cospicuo recupero di consensi al Carroccio dopo il tracollo legato alla fallimentare gestione dell’ultimo Bossi. 



Solo che, stando almeno ai sondaggi più recenti, l’escalation sembra ormai vicina al capolinea: i consensi sono fermi da tempo attorno al 13-14 per cento. Che è pur sempre una percentuale a doppia cifra, quota tutt’altro che irrilevante nel panorama politico italiano segnato da molteplici nani; e soprattutto, pare tale da consentire a Salvini il sorpasso su Berlusconi. Ma se rappresenta un patrimonio significativo a livello di opposizione, rimane poco o nulla spendibile in chiave di governo. Quindi, a lungo andare, rischia di diventare un boomerang: sarà per questo che il segretario della Lega si infila in ogni pertugio disponibile pur di mantenere una sua visibilità mediatica, grazie anche ai copiosi inviti ai vari talk-show: ai cui conduttori peraltro interessa molto di più una possibile sparata che faccia audience, rispetto ai contenuti effettivi della proposta politica.



Vanno inquadrate in questo contesto le sparate salviniane a tempo pieno sulle amministrative del prossimo anno, che riguarderanno alcune grosse città, a partire da Milano e Roma; e se nella prima il peso del Carroccio è di tutta evidenza, nella seconda siamo alla pura facciata; che peraltro, di questi magri tempi, basta e avanza. In entrambi i casi, la posizione di Salvini assomiglia molto alle sue scelte in tema di felpe: cambia a seconda dei tempi e dei luoghi. Col risultato che il suo rapporto con Berlusconi continua a rimanere mutevole e precario, come quello di due fidanzati non ben sicuri delle proprie intenzioni: dalle promesse di eterno amore si passa facilmente alla rottura dei piatti; e viceversa. Con assicurazioni di comuni e solidi intenti anti-governativi, a pesanti accuse reciproche: vedi il caso del comunicato al miele seguito alla cena di Arcore in cui i due sembravano aver condiviso tutto, compresa l’amarezza da tifosi milanisti delusi; per passare 48 ore dopo al comunicato al fiele partito da via Bellerio in direzione forzista, dopo il voto con il Pd a un articolo sulla riforma del Senato.



Su queste alterne vicende si inseguono le ricerche di retroscena e le interpretazioni più fantasiose e in alcuni casi pure tortuose. Ma la verità, probabilmente, è molto più semplice: in questo momento, Salvini è come un giocatore di poker ai primi giri di carte, dove a volte si rischia il bluff fino a che gli avversari non dichiarano il “vedo”. 

La sua posizione d’altra parte è abbastanza chiara: sta giocando il tutto per tutto sulla Lega, ma anche su se stesso. Ha cambiato linea al partito senza neanche l’ombra di un avallo congressuale, trasformandolo da federalista e/o secessionista a nazional-populista, e si è impegnato a fare l’anti-Renzi dedicandosi alla parte del “diversamente Matteo”. 

L’ha fatto contando sullo squagliamento dell’ormai fu-Pdl, e sul mix di rabbia, paura e frustrazione che attraversa un segmento rilevante dell’opinione pubblica. Ma adesso sembra aver fatto il pieno, fermandosi a catalizzare l’area della protesta, senza riuscire a intercettare almeno in parte quello della proposta. E rischia di finire in un vicolo cieco: il suo 14 per cento, da solo, è come il 10 per cento della stagione d’oro di Bossi, quella del 10 per cento nel 1996; destinato a finire nel freezer della politica.

La speranza di Salvini è palesemente quella di diventare il riferimento di un nuovo centro-destra, approfittando dell’ormai prossimo capolinea di Berlusconi, ma si illude: se il termine di paragone più credibile è quello con la Francia, il suo posizionamento può essere quello di una Le Pen, non di un Sarkozy. Perché una parte significativa dell’elettorato moderato preferirà comunque distribuirsi tra Renzi (in parte minore) e l’astensione. E a quel punto, il “diversamente Matteo” rischierà di trovarsi a dover fare i conti anche in casa propria, dove un Maroni tutt’altro che scomparso sembra già cominciare a prendere le distanze dal decisionismo solitario del segretario. Che forse si è illuso di poter proporre il bis di un autorevole precedente storico: sottovalutando il fatto che il Vangelo secondo Matteo è unico e irripetibile.