Si narra che un giorno un turista italiano in viaggio a Londra si recò in un austero negozio di libri, per acquistare una copia della Costituzione britannica, la quale, però, essendo consuetudinaria, notoriamente non è scritta. Sprezzante fu la risposta del libraio: “siamo spiacenti, ma non vendiamo stampa periodica!”.



L’aneddoto è solitamente ricordato per esemplificare la differenza fra la costituzione britannica e quelle continentali: l’una, in quanto consuetudinaria, è rimessa all’evoluzione secolare di regole stratificatesi in epoche storiche diversissime; le altre, in quanto scritte, sono invece rimesse a un’evoluzione periodica, determinata dalla decisione delle nuove generazioni di marcare la differenza con il passato e di sostituire le vecchie regole con disposizioni più adeguate ai tempi.



Alla luce delle trasformazioni provocate dalla riforma costituzionale Renzi-Boschi, tuttavia, la risposta del libraio inglese assume una connotazione ben più spregiativa. Essa denuncia e irride il destino della nuova Costituzione italiana, inesorabilmente condannata a sopportare continui interventi e stravolgimenti correttivi, finalizzati a compensare le tante criticità del testo di riforma già risapute e, tuttavia, sempre tacitate dalla roboante propaganda di governo. Lo stesso presidente Napolitano, che per ammissione del ministro Boschi è stato il vero artefice della riforma, nel suo ultimo intervento in Senato ha dovuto riconoscere la necessità di una tale prospettiva; ha dovuto dare atto della pericolosità del testo di riforma sul duplice piano della rappresentanza politica e della divisione dei poteri: “dobbiamo dare risposte a situazioni nuove e ad esigenze stringenti, riformare — arricchendola — la nostra democrazia parlamentare. Al di là dell’approvazione del disegno di legge costituzionale in discussione, bisognerà altresì dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali“. 



Del resto, una Costituzione congegnata in modo da assegnare l’intero sistema di governo a “un uomo solo alla testa di un solo partito” — secondo la lucida espressione di Luciano Violante proprio su queste pagine —, non può non originare simili preoccupazioni; con l’ulteriore aggravante che la mancata previsione di adeguati contropoteri sarà acuita dalla rissosità del nuovo impianto parlamentare. 

La Camera dei deputati sconterà una rissosità dovuta a una composizione che l’Italicum ha doppiamente artefatto tanto nel rapporto fra maggioranza e opposizioni, quanto nella relazione fra gli stessi deputati: nell’un caso, in ragione dell’esorbitante premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale, posto che il 55% dei seggi sarà assegnato al più forte partito di minoranza, indipendentemente dalla percentuale di voti ricevuti e dal quorum di partecipazione registrato; nell’altro caso, in ragione del sistema dei capilista bloccati, posto che il 60% dei deputati sarà di nomina partitica, con la conseguenza che il restante 40%, essendo stato eletto nelle competizioni territoriali a caro prezzo (è proprio il caso di dire!), reclamerà in ogni modo la ricompensa del proprio primato elettorale.

Il Senato, allo stesso modo, sconterà una rissosità originata dall’eterogenea provenienza dei relativi componenti (consiglieri regionali, sindaci e di nomina presidenziale). Questi risultano doppiamente penalizzati rispetto ai più fortunati colleghi deputati: non solamente sono stati trattati dalla riforma alla stregua di dopolavoristi a titolo gratuito, ma sono stati pure chiamati a competere in una confusa e costosa consultazione elettorale (risultando eletti con un sistema di rappresentanza semidiretta con ratifica dei consigli regionali); previsione, quest’ultima, che mal si concilia con la tanto declamata natura solo territoriale del Senato, riaffermando piuttosto la piena signoria dei grandi partiti nazionali sull’intero Parlamento.

La tratteggiata rissosità parlamentare di tipo politico (minoranze vs. maggioranza), personale (eletti vs. nominati) e istituzionale (territori vs. nazione) avrà così un percorso carsico, destinato a emergere in occasione di particolari tornanti storici, esondando e travolgendo i già precari equilibri fra i poteri costituzionali.

E’ il caso, ad esempio, del ginepraio dei ben nove procedimenti legislativi variamente ripartiti fra le Camere. La riforma dispone che, in caso d’incertezza, la relativa competenza sia concretamente individuata dai Presidenti delle stesse attraverso lo strumento dell'”intesa” (art. 70, comma 6), previsto tuttavia senza alcun’altra alternativa e senza norma di chiusura; con la conseguenza che nelle varie situazioni conflittuali il mancato conseguimento o il contestato contenuto di una simile “intesa” sarà suscettibile di puntuali e inesauribili contenziosi innanzi alla Consulta.

E’ il caso dell’elezione del Presidente della Repubblica. La riforma prevede che dopo il settimo scrutinio il Presidente sia eletto dalla maggioranza dei tre quinti dei soli votanti e non più degli aventi diritto al voto (art. 83, comma 3). La previsione, tuttavia, si espone a un duplice grave rischio: per un verso, in caso di vertiginosa riduzione del quorum dei grandi elettori, il rischio è quello di eleggere un Presidente delegittimato dai pochi voti ricevuti, sì da non poter esercitare effettivamente quel ruolo di garante dell’equilibrio dei poteri già variamente dimidiato dalla stessa riforma; per altro verso, in caso di conflitto continuo fra maggioranza e opposizione, il rischio è quello di originare una situazione di stallo istituzionale senza fine, sempre foriero di gravi pericoli per la tenuta democratica del sistema (basti pensare che un’analoga situazione di stallo fu sbloccata nel 1992 con la strage di Capaci e con la conseguente elezione del già ministro dell’interno e all’epoca presidente del Senato, Oscar Luigi Scalfaro).

E che dire dello “stato di guerra”, la cui deliberazione è stata affidata dalla riforma alla maggioranza assoluta della Camera (art. 78), vale a dire alla decisione del solo e incontrastato leader di partito e di governo, in assenza di qualsiasi effettivo contropotere?

E che dire dell’amnistia, la cui concessione è deliberata dai due terzi dei componenti della sola Camera (art. 79), con la conseguenza di consentire al leader di partito e di governo di amnistiare la propria forza politica, una volta trovati in Aula i restanti voti occorrenti (appena 80); del resto, sulla fluttuabilità dei voti parlamentari l’esperienza dovrebbe pure insegnare qualcosa!

Rispetto al quadro tratteggiato ben vengano le “preoccupazioni” tardivamente condivise dal presidente Napolitano. Il guaio è che le stesse innescheranno un nuovo ciclo di micro-riforme ancora più contingentato e disorganico, dovendo essere insistere in un quadro costituzionale privo della dovuta sistematicità. 

Si passerà dalla riforma conclusa a una riforma semper reformanda. Da una Costituzione riformata, che affida l’equilibrio dei poteri a regole nuove, stabili e certe, a una Costituzione da riformare in continuazione, che affida l’equilibrio dei poteri a regole ancora da scrivere, da positivizzare in seguito e a secondo delle occorrenze del momento.

A rimetterci sarà anzitutto la credibilità della stessa Costituzione. Più che assicurare l’equilibrio fra i poteri, questa ne fomenterà il costante conflitto, a meno di non essere integrata dai necessari aggiornamenti dell’ultim’ora, confezionati alla stregua di quella “stampa periodica” sprezzantemente disdegnata dal libraio inglese.

Un tempo le revisioni costituzionali si progettavano per sfidare i successivi decenni. La riforma in discussione, già motivo di “preoccupazione” per il relativo e principale artefice, aprirà la via a un incessante fluvio di nuove riforme. A ben vedere, servirà soltanto a seppellire la Costituzione del ’48.