E’ difficile prevedere quale sarà il futuro dei giornali, della carta stampata. I tentativi di rilanciarne una presenza decisiva e importante nel mondo dell’informazione e della comunicazione si stanno misurando sempre di più non solo con l’ormai vecchia “invadenza” delle televisioni, ma con il grande prodotto della tecnologia più sofisticata della rete e delle sue continue innovazioni e invenzioni. Sembra chiaro a tutti che il ruolo dell’informazione non stia diventando solo un grande problema da risolvere, ma appaia come l’aspetto cruciale del cambiamento complessivo delle società democratiche, quindi anche di quella italiana. Questo sintetica premessa può aiutare a comprendere quello che è anche avvenuto alla Rizzoli libri, inglobata dalla Mondadori berlusconiana, ma soprattutto quello che sta accadendo al Corriere della Sera. Il quotidiano di via Solferino, il giornale più prestigioso d’Italia da più di un secolo, continua a perdere colpi, cioè copie, e non riesce a uscire da un’opacità che sembra quasi la metafora dell’opacità di Milano. Malgrado le sue complicate vicende proprietarie (solo la famiglia Crespi assicurò una lunga stabilità), il Corriere ha sempre avuto in plancia di comando un assetto garantito e un “appeal” che la grande finanza strategica, quella che aveva sede a Milano, non poteva lasciarsi sfuggire.



Se in Italia è esistita una vera “stagione di poteri forti”, quella è legata senz’altro a via Solferino. Oggi, la prima cosa che sembra evanescente nell’analizzare la situazione del Corriere è certamente la proprietà. Ancora alcuni anni fa, un finanziere straniero come Tarak Ben Ammar, guardando il vecchio “patto di sindacato” di via Solferino, poteva ironizzare dicendo: “Lì non c’è un editore, ma un club di tennis o di golf”. Tuttavia l’ironia di Ben Ammar non poteva annullare e prescindere da chi aveva le leve del comando. Quella proprietà, anche se si capiva che Mediobanca perdeva il ruolo propulsore nel capitalismo italiano che il Corriere rappresentava, sembrava ancora vitale e motivata a mantenere il Corriere su livelli di prestigio ed eccellenza. 



Oggi è ancora così? Molti ne dubitano. Il capitalismo italiano sembra in fase di smantellamento e guarda altrove. La finanza strategica non è più milanese, neppure in Italia, in una realtà globalizzata. I vecchi protagonisti che si sono confrontati e scontrati intorno a via Solferino sembrano in via di pensionamento o di progressivo disinteresse. Qualche nuovo sgomitante non “fa primavera”. C’è, a questo punto, chi fa notare maliziosamente che due esponenti del consiglio di amministrazione sono una diramazione, quasi diretta, di Rupert Murdoch, che non sembra nascondere le sue intenzioni di arrivare, nel giro di qualche anno (forse dopo le elezioni americane?) sulla tolda di comando del Corriere della Sera. 



Non è una novità che si dica, da tempo, che via Solferino sia un obiettivo di Murdoch, così come da tempo si diceva che la Rizzoli libri stava nel mirino della Mondadori. A ben guardare è l’opacità di Milano (nonostante l’ultimo exploit positivo dell’Expo e l’affermazione consolidata di grandi marchi in alcuni settori) che si riflette sulla proprietà di via Solferino e inevitabilmente sull’opacità del giornale, che ha rappresentato per più di un secolo la borghesia del nord-ovest italiano. Nessuno ha intenzione di attribuire colpe specifiche al nuovo direttore, Luciano Fontana, e nemmeno ai direttori di questi anni. Ferruccio De Bortoli è uscito da via Solferino spiegando senza tante metafore la sua posizione sul nuovo presidente del Consiglio, Matteo Renzi, definendolo un “maleducato di talento”. E non si è risparmiato con altre dichiarazioni in seguito: “E’ un prodotto di sintesi del berlusconismo di sinistra”.

In fondo, De Bortoli ha rivendicato una posizione netta di un grande organo di stampa, che ha il prestigio e l’autorevolezza per dirlo. Ma probabilmente era un “ultimo fuoco” dopo anni di lento scivolamento. Adesso, nei confronti del governo, ma non solo, il Corriere sembra galleggiare. Ci sono le puntualizzazioni costituzionali di Michele Ainis. I consigli economici del duo Giavazzi&Alesina. I chilometrici fondi di Ernesto Galli della Loggia. In questi giorni, dopo la pratica Rizzoli libri, è tornato a scrivere con una certa assiduità Paolo Mieli, l’ex direttore. Anche lui suggerisce. E la sua presenza da qualcuno è scambiata come una “direzione ombra”. Martedì, in un fondo lungo e dotto, ha suggerito ai fans del Movimento 5 Stelle di operare una Bad Godesberg della loro “ideologia” piuttosto complottarda.

Che cosa il movimento di Grillo e Casaleggio possano avere in comune per un cambiamento di tale tipo, paragonabile a quello di uomini come Willy Brandt e Helmut Schmidt nel 1957 nei confronti del marxismo, è difficile immaginarlo, se non con un paragone forzato dovuto a motivi di citazionismo intellettualistico. In fondo, si comprende che anche Mieli aspetta e galleggia, pensando forse alle occasioni perdute. Sponsorizzò Prodi nel 2006, che poi naufragò. Ha lanciato una grande operazione editoriale, “La casta”, nel 2007, che sembra andata tutta a beneficio dei grillini, che oggi dovrebbero fare la famosa Bad Godesberg. Infine si è esibito in una sponsorizzazione di Gianfranco Fini nel 2009, che non sembra finita molto bene per lo stesso Fini. 

A guardare bene, dalla crisi epocale della stampa scritta, dalla crisi storica della proprietà del Corriere della Sera, dalle valutazioni azzardate di alcuni esponenti del giornale di via Solferino, nasce proprio il galleggiamento attuale — oppure, secondo alcuni maligni, il “panchinaggio”. In sintesi, l’attesa, cioè, che arrivi qualcuno di importante a cominciare un’altra storia.