Con la pubblicazione del decreto che regola le mobilità (cioè i trasferimenti) del personale provinciale dagli enti di area vasta verso gli altri enti pubblici, molta parte dei media ha scritto negli scorsi giorni che si compie il tassello “fondamentale” del processo di riforma delle province. Nella realtà, le cose non stanno così. Il decreto sulla mobilità, com’è facile comprendere, non è per nulla un punto di arrivo della riforma, bensì solo e parzialmente un punto di partenza.
Non è un caso, infatti, che questo decreto non solo avrebbe dovuto preesistere alla legge 190/2014 che ha innescato il processo di mobilità del personale provinciale, ma, comunque, stando anche alle circolari esplicative della Legge di stabilità per il 2015, avrebbe dovuto vedere la luce al massimo entro lo scorso mese di febbraio. Invece, come si nota, sono occorsi 10 mesi (quasi la metà dei 24 a disposizione per ricollocare il personale in sovrannumero) per avere, si ribadisce, null’altro che la base di partenza, oltre tutto molto parziale.
Perché il decreto da solo non basta? Perché ai fini della riallocazione del personale mancano ancora le due fondamentali chiavi di volta. La prima è l’elenco dei posti disponibili nelle pubbliche amministrazioni. In effetti, la legge 190/2014 è partita lancia in resta nell’imporre il taglio delle dotazioni organiche delle province e la messa in sovrannumero di migliaia di dipendenti, senza che fosse noto a nessuno se e quanti posti vacanti fossero disponibili nelle altre Pa.
È chiaro che una gestione semplicemente saggia di una simile riforma avrebbe richiesto che un’indagine sui fabbisogni lavorativi delle Pa, delle reali disponibilità, degli enti, della locazione territoriale, delle qualifiche e delle mansioni richieste precedesse e non seguisse la messa in sovrannumero dei dipendenti provinciali. Invece, se tutto andrà bene la notizia di questi dati la si avrà a novembre 2015.
Il secondo elemento carente sono le leggi di riordino delle regioni: mancano ancora all’appello la metà delle regioni a statuto ordinario. Gran parte del territorio italiano, dunque, è privo di leggi regionali che abbiano deciso quali delle funzioni non fondamentali delle province passino alle regioni stesse, quali altre siano da assegnare ai comuni, quali altre ancora lasciare eventualmente alle province medesime, e con quali finanziamenti.
L’assenza di queste leggi rende di difficilissima attuazione il decreto sulla mobilità: infatti, le province sono chiamate a inserire (peraltro senza nessuna sanzione in caso di inadempimento) nell’applicativo internet di incontro domanda-offerta di mobilità i nominativi dei dipendenti in sovrannumero. Ma la quasi totalità delle province non ha mai sin qui approvato le liste, proprio per l’assenza delle leggi regionali di riordino e, laddove queste leggi siano state adottate, per la mancanza dei connessi provvedimenti attuativi.
Le province dovrebbero caricare i nominativi sull’applicativo entro il 30 ottobre; ma, le regioni, per approvare le leggi di riordino, debbono rispettare la scadenza del 31 ottobre. Non era, allora, opportuno che il decreto tenesse conto dell’incoerenza delle scadenze, dando modo alle province di caricare i dati dopo, ben dopo, che le regioni avessero approvato le leggi di riordino?
La concomitanza della scadenza per caricare i nomi dei dipendenti in sovrannumero e di quella per l’approvazione delle leggi regionali di riordino contribuisce a creare ulteriore confusione, come se quella già in atto non bastasse. Il decreto, peraltro, non contiene alcuna previsione espressa per regolare i casi nei quali le regioni decidessero di lasciare, in tutto o in parte, le funzioni alle province, come peraltro consente loro l’articolo 118, comma 2, della Costituzione. Il personale provinciale addetto a funzioni fondamentali che le regioni confermassero in capo alle province, a quel punto sarebbe da considerare in sovrannumero? E perché?
Mancano altre risposte a quesiti fondamentali. Le regioni potrebbero decidere di acquisire funzioni e personale provinciale, ma non c’è alcuna norma espressa che consenta loro di aumentare la propria dotazione organica di migliaia di posti. Gli unici riferimenti sono una circolare, la 1/2015 a firma congiunta del ministro della Funzione Pubblica e del ministro degli Affari regionali, e una norma dalla più che controversa interpretazione del Contratto collettivo nazionale di lavoro dell’1.4.1999. Un po’ poco.
E se le regioni non adottino le leggi regionali di riordino entro il 31 ottobre? Il dl “enti locali” prevede che, allora, entro il 30 novembre dovrebbero rifondere alle province le spese da esse sostenute per la gestione delle funzioni non fondamentali. Ma, allora, se le province acquisiscono i finanziamenti della spesa per personale e servizi connessi alle funzioni non fondamentali, perché il personale dovrebbe continuare a considerarsi in sovrannumero?
Infine, rimane senza risposta un altro quesito, che riguarda i comuni e le altre amministrazioni. Alcune regioni, come il Veneto, si stanno effettivamente muovendo per riordinare in fretta le funzioni, oscillando tra l’idea di lasciare tutto alle province, oppure di prendersi direttamente tutte le funzioni provinciali. Ma, in entrambi i casi, per i comuni non vi sarebbe alcuna possibilità di acquisire personale provinciale mediante mobilità, almeno facente parte del territorio regionale. Non si capisce, allora, perché per quei comuni dovrebbe continuare a valere il blocco delle assunzioni, che da 10 mesi li strozza e impedisce loro di supplire alle carenze di organico.