“Il caso di Roma, dopo quelli di Liguria, Veneto e Campania, documenta che non c’è una volta in cui Renzi si misuri con il territorio e porti a casa un risultato. Anzi ogni volta il premier finisce nei guai, e il guaio romano è praticamente incurabile”. Lo sottolinea Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità ed ex parlamentare dei Ds. Da ieri Ignazio Marino non è più sindaco di Roma, in quanto 26 consiglieri comunali si sono dimessi. La conseguenza è lo scioglimento dell’assemblea e della giunta, e dunque la decadenza del sindaco. Nel suo ultimo discorso Marino ha attaccato i consiglieri, dicendo loro: “Avete preferito il notaio all’aula”. Quindi riferendosi al suo partito ha detto: “Ha tradito il suo nome e il suo Dna”. Quindi ha aggiunto: “E’ una coltellata da 26 nomi ma un unico mandante”. Per Caldarola però, “quelle di Marino sono parole tardive e del tutto fuori dalla realtà”.
Marino è stato dimissionato dalla politica o dall’avviso di garanzia?
Quello dell’avviso di garanzia è stato un “trucco” utilizzato per non dire la verità. La verità è che Marino non poteva continuare a fare il sindaco perché non faceva il sindaco. La vicenda degli scontrini è ancora tutta da dimostrare, l’iter giudiziario è aperto e chissà se si concluderà. Ci si è riparati dietro alla questione morale, quando la questione era amministrativa e politica.
In che senso?
E’ amministrativa perché Marino non sa fare il sindaco. Ed è politica perché questa cosa a un certo punto è stata evidente a tutti, ma Renzi per il tramite di Matteo Orfini ha posto una barriera tra le condizioni della città e la tenuta del sindaco. Da parte di Orfini è stata detta una serie di bugie, di autoinganni, di false rappresentazioni della realtà, fino a questo finale abbastanza indecente dal quale escono male tutti i protagonisti.
Perché secondo lei a uscirne male è anche il Pd?
Perché il Pd ha avuto un atteggiamento schizofrenico. Prima ha voluto questo sindaco, lo ha difeso a spada tratta, poi ne ha chiesto le dimissioni per una banale storia di scontrini. Alla fine lo costringe ad andar via con le dimissioni dei consiglieri, come solitamente si fa con i sindaci collusi con la mafia.
Come valuta il comportamento di Orfini?
La componente che fa capo a Orfini ha avuto una delega totale e l’ha gestita con un’incapacità, un’insipienza e un’arroganza da Guinness dei primati. Mi chiedo chi sia il personaggio più surreale di questa vicenda, se l’allegro chirurgo Marino o Orfini alias il figlioccio di Cernenko.
Orfini però era solo un “intermediario”. Secondo lei perché Renzi ha gestito il caso Marino in questo modo?
Innanzitutto Renzi non si è reso conto del disastro in cui versa Roma, non ha avvertito la gravità del non governo della città e forse ha pensato che si potesse prendere tempo. Finché come tutti i sinceri anti-comunisti, si è convinto che bastasse affidarsi a un ex comunista come Orfini perché questo gli portasse le truppe a tutela del fortino. Peccato che Orfini di truppe non ne abbia.
Da dove nascono gli errori di valutazione di Renzi?
Quando si è trattato di occuparsi della periferia, Renzi ha sempre sbagliato tutti i conti. Lo documentano i casi di Roma, Liguria, Veneto e Campania. Non c’è una volta in cui si misuri con il territorio e porti a casa un risultato. Renzi non conosce il territorio, è convinto di poter raccogliere i voti da solo, delega le scelte ai fiduciari del suo cerchio magico, e così si trova regolarmente in mezzo ai guai. Il guaio romano per Renzi è praticamente incurabile, non ha soluzione: il Pd perderà le prossime elezioni romane.
Perché il Pd non ha avuto il coraggio di sfiduciare il sindaco in aula?
Questo è l’unico punto su cui Marino ha ragione. Il dibattito pubblico avrebbe consentito al sindaco di dire la sua, ma anche qualche consigliere del Pd con la testa sulle spalle avrebbe potuto fare altrettanto. Sarebbe stata una verità detta al Consiglio comunale e quindi alla città. Ci si doveva aspettare sicuramente un bagno di sangue, che si è voluto evitare attraverso questa soluzione breve che è legittima ma politicamente non encomiabile. Sono sempre meglio le crisi spiegate dentro alle aule in cui si matura la rappresentanza. Quindi c’è stato un errore.
Perché ad andare in aula non è stata l’opposizione?
Perché l’opposizione ha fatto un altro calcolo, più utilitaristico. Ha visto che la contraddizione era tutta nel campo del Pd, e quindi non ha ritenuto di dover mettere il piede sull’acceleratore. D’altra parte il Pd ha dovuto chiedere ai rappresentanti dell’opposizione il favore di firmare la lettera di dimissioni. Si capisce bene da questo perché l’opposizione non aveva alcun interesse a scegliere un’altra strada. Anche l’opposizione però ha di fatto rinunciato al dibattito pubblico. L’impressione è che alle assemblee elettive non ci creda più nessuno, e questa non è certo una considerazione che metta l’animo felice.
(Pietro Vernizzi)