Pur vincente, Matteo Renzi sembra un po’ nervoso. Nel giro di pochi giorni litiga con la Mogherini, litiga con Grasso, litiga con Rai3, litiga con Prodi e, soprattutto, smentisce la pace con Bersani (“C’è ancora qualcuno che non ha elaborato il lutto della sconfitta al congresso”). Un nervosismo tutto interno al Pd. Evidentemente il cosiddetto accordo con la minoranza è per il presidente-segretario, in sostanza, un rinvio della resa dei conti.



Il quadro generale è infatti di stabilità, di rafforzamento e di consenso per Renzi. I dati economici cominciano ad essere positivi. Ma Palazzo Chigi è subito suscettibile: solo merito dei provvedimenti ministeriali e il premier si irrita se Prodi in proposito ricorda l’azione di Draghi. In realtà c’è un mix tra fattori internazionali come il calo del petrolio e dell’euro e riforme come il Jobs Act che presentano un bilancio positivo. 



Perché allora il nervosismo? La ripresa in Italia è ancora incerta e deve essere chiara quando tra meno di un anno c’è il nuovo test elettorale. Le elezioni europee del 2014 sono state trionfali, ma nelle regionali del 2015 c’è stato un passo indietro e le comunali del 2016 vedono dovunque gli uscenti di Bersani in testa. Da Napoli a Milano però l’esito è incerto e può essere occasione di rivincite interne. Renzi infatti domina il Pd negli organismi nazionali, ma non sul territorio e nelle istituzioni. E cioè in Senato non è riuscito ad affermare una “sua” maggioranza e piena autosufficienza (non ha raggiunto il “quorum” dei 161 voti né nel voto segreto né in quello palese sull’articolo 2). Verdini è determinante, ma insieme alla minoranza del Pd e Renzi non può ancora “portarlo” in maggioranza. Il Rottamatore deve soffrire condizionamenti. 



Il fatto che le più alte cariche dello Stato siano state elette — prima da Bersani e poi dallo stesso Renzi — “buttandosi a sinistra” si traduce nel fatto che da Mattarella a Grasso il premier ha di fronte personalità che — non per faziosità, ma per istinto — non si esaltano a seguire le imprese di un governo a guida extraparlamentare con una maggioranza di transfughi (peraltro risicata se non dubbia dato che una parte del Ncd è in fibrillazione). Il presidente della Repubblica, alla vigilia di essere eletto da Renzi, ha dovuto accettare di ascoltare la Boschi che gli esponeva il suo “disegno organico” di riforme istituzionali e costituzionali, ma è anche vero che nei giorni scorsi Mattarella — che, come scrive il quirinalista del Corriere Marzio Breda, segue gli avvenimenti con “una sottile vena di autorevolezza siciliana” — non ha mancato di esprimere pubblicamente la sua contrarietà alla prassi di “un uomo solo al comando”. A ciò si aggiunge che Grasso, pur perdendo di autorevolezza, ha “menato il can per l’aia” sull’ammissibilità degli emendamenti finché non si arrivati a un compromesso unitario all’interno del Pd.

Il premier-segretario è insomma “guar dato a vista” dalle più alte cariche dello Stato mentre la minoranza lo tallona sul territorio puntando a sostituirlo al prossimo congresso. Renzi ha commissariato il Nazareno, ma non riesce ancora a governare il partito. In certe Regioni deve fronteggiare uno scenario da “guerra civile” a cominciare dalla “sua” Toscana: espulsioni, accuse di brogli, liti su porti e aeroporti, vertici di partito in crisi. In aggiunta il “governatore” Enrico Rossi si candida a sostituire Renzi alla guida del Pd e pone il “veto” su Verdini evocando Berlinguer e la “questione morale”. E in Parlamento, Speranza e Gotor gli fanno eco.

Renzi è bersagliato dall’opposizione interna soprattutto sul punto che gli è stato rinfacciato dal rabbioso Varoufakis: essersi messo sotto la Merkel rinunciando a un ruolo nella leadership della sinistra europea. 

Infatti il problema di Renzi a Bruxelles non è la debolezza della Mogherini che è già molto se riesce a non essere esclusa lei: alle trattative sull’Iran Juncker l’ha sostituita con il predecessore (la peraltro non eccelsa Catherine Ashton) e nei giorni scorsi al “vertice” Ue con Putin sull’Ucraina la Mogherini non c’era. 

Renzi come leader della sinistra italiana era il naturale e primo destinatario della lettera di Draghi e degli altri vertici istituzionali europei per una maggiore integrazione che è invece ostacolata dalla Merkel. E Renzi è rimasto silenzioso. Così come ha girato le spalle all’appello più recente di Hollande ai sei Stati fondatori dell’Unione europea per “varare un’eurozona più coesa”. Ma la scelta di Renzi di mettersi al riparo sotto la Germania è forse anche obbligata nel senso che con il nostro indebitamento riusciamo così ad ottenere più flessibilità dai controllori di Bruxelles che sono tutti in mano tedesca. La conseguenza è però che non abbiamo molta voce in capitolo sulla scena internazionale. Anche perché quando ci sono candidature credibili — da Prodi per l’Onu a Letta per l’Unione europea e Frattini per la Nato — il governo italiano si arrabbia e nega ogni interesse. E’ così che la voce più importante messa da Renzi sulla scena mondiale è la Mogherini (che viene anche rimproverata). 

Comunque il disegno di Renzi di trasformare il governo in un monocolore (come obbliga l’attuale versione dell’Italicum) facendo del Pd il partito unico non genericamente della nazione (come malignano gli oppositori), ma di un centro-sinistra nazionale, continua a crescere ed appare l’unico progetto vivente sulla scena italiana.