E’ ritornata puntualmente la ripetitività di analisi, riunioni, dichiarazioni, deplorazioni. Le televisioni si arrovellano negli inviti di esperti (anche di presunti esperti) e nell’aggiornamento di notizie già note. Da Parigi e dalla Francia arrivano immagini di dolore, di sgomento, di frustrazione, di paura, ma anche di rabbia. Da Bruxelles sarebbe garantita l’unità dell’Unione Europea e da Palazzo Chigi filtra un invito all’unità come ai tempi del terrorismo.



Ma i tempi del terrorismo sono finiti, chiusi, forse da parecchio tempo. Perché non ci vuole un grande stratega per derubricare l’azione di guerra di Parigi in attacco terroristico. Non è neppure solo un salto di qualità “guerrigliero” in chiave urbana. Prendiamo atto una volta per tutte che l’Isis, il nuovo radicalismo islamista diventato stato, ha messo in atto tutta la sua pressione sull’Occidente con “truppe scelte” di diversa provenienza, quelle che si mimetizzano integrate nel melting-pot di seconda o terza generazione e quelle che si infiltrano arrivando direttamente dai luoghi della guerra sul campo.



L’azione di Parigi è apparsa perfettamente coordinata, con una sequenza quasi scandita da un orologio, con tutta probabilità diretta e studiata con suggerimenti che arrivavano da lontano.

Ci si stupisce che non vengano presi di mira dei “simboli”, degli edifici “simbolo”, dei luoghi “simbolo” dell’Europa occidentale e cristiana. Ma è proprio questo che delinea la guerra totale scatenata dall’Isis. Il califfato nazislamista, quello che arriva all’esecuzione cadenzata di giovani che si divertono in una sala parigina di spettacoli, è l’espressione di un odio, totale e viscerale, verso uno stile di vita, verso una civiltà che non è tollerata dal loro fanatico radicalismo. E’ questo il simbolo che vogliono colpire: il modo di vivere quotidiano delle persone dell’ Occidente.



Questo fatto sembra trascurato nelle analisi della classe dirigente dell’Occidente. La politica estera occidentale, da una parte all’altra dell’Atlantico, sembra tutta orientata a muoversi nel profumo di affari a breve scadenza e di una banale fiducia nell’esportazione, senza colpo ferire, del sistema democratico che storicamente, da secoli, è una caratteristica occidentale, una vocazione occidentale che non può essere svillaneggiata nel 2015 per gli errori del colonialismo o addirittura condannata dalla storia delle crociate. Tra un po’ dovremo condannare anche Pietro l’Eremita per ammorbidire il califfo e i suoi alleati.

Bisognerebbe andare a rileggere i cantori delle “primavere arabe”, i destabilizzatori di regimi certamente non democratici, ma almeno funzionali a stabilità di regioni e di vaste aree del mondo, per comprendere tutta la povertà culturale di questa nuova classe dirigente occidentale rispetto ai vecchi grandi diplomatici che almeno assicuravano lunghi periodi di pace al mondo.

In più, con una ottusità incredibile, le divisioni sulla strategia da adottare contro lo stato islamico sono gravate da contrasti e profonde diffidenze tra Stati, tra la Russia e gli Stati Uniti, tra la spaccatura della politica di Barack Obama e quella dell’alleato naturale in Medio oriente dell’Occidente, Israele, dopo l’accordo definito storico con l’Iran.

C’è un secondo punto da ricordare. L’interrogativo che spesso ritorna in questi tempi è: quale fine ha fatto la tradizione della grande “intelligence” europea e americana? La capacità della Sdece francese, la tradizione del MI5 e MI6 inglese, la mobilità della stessa Cia esistono ancora?

Se in Italia, si arrivò al punto di dichiarare che i servizi segreti dovessero essere improntanti alla chiarezza e alla trasparenza, in quei Paesi mai simili stupidate sono state prese in considerazione. Ma che la fine della guerra fredda abbia affievolito la forza delle grandi centrali di intelligence è un fatto vero e riconosciuto. Molti uomini della Cia, impegnati nel Medio Oriente, si sono visti “promossi e esonerati”, perché non si potevano dare notizie imbarazzanti sulla “grande amica” Arabia Saudita (che al momento, bisogna osservare, non ha ancora detto una parola sulla tragedia di Parigi). E comunque, con il ragionamento frettoloso che il nemico comunista era imploso, si è pensato soprattutto a fare soldi e a trascurare altre aree del mondo che erano già in fermento all’inizio degli anni Novanta.

Diventata latitante l’America in questo settore decisivo, cosa può riservarci la “pallida” Europa, tutta concentrata su austerità e difesa delle banche, che non ha una politica estera, non un esercito e una difesa comune? Una “intelligence” comune, magari solo come somma dei vecchi servizi segreti, è impensabile per questa Europa. In questo modo l’intelligence è diventata un “buco”, che non riesce, non può prevenire le grandi tragedie portate dai kamikaze, dai guerriglieri e dalle truppe di terroristi in guerra.

La sequenza di errori delle classi dirigenti occidentali e la tattica determinata, spregiudicata, dello Stato Islamico, che sembra conoscere tutte le debolezze di questo Occidente, sta provocando un pericoloso corto circuito politico. Di fronte all’incertezza dei governi, di fonte alla ripetitività delle momentanee costernazioni e all’inefficacia della prevenzione, l’opinione pubblica occidentale sbanda paurosamente su posizione di schematico oltranzismo.

In Francia, François Hollande parla, forse per la prima volta, di guerra. Nicolas Sarkozy alza i toni e invoca il “pugno duro”, ma, anche di fronte a questi toni differenti, i cittadini di diverse città francesi non rendono solo omaggio ai poveri morti e alle persone colpite, protestano anche contro l’azione del governo e protestano contro la presenza di cittadini musulmani.

E’ come se l’immobilismo di questi anni stesse favorendo l’alternativa che offre Marine Le Pen, valutata ormai dai sondaggi come leader di una forza di maggioranza relativa di grande peso.

Lo stesso corto circuito può avvenire in Italia, quando si continua a sottolineare il “senso di responsabilità”, nell’inattività e nell’impotenza, mentre la Lega diventa il megafono di posizioni di esclusione sociale e di una politica sempre più dura contro gli immigrati.

Si dice che la democrazia “abbia uno stomaco di ferro”, che digerisca “quasi tutto”, ma quando si rivela impotente di fronte a ogni problema è destinata purtroppo a lasciare il passo a forme diverse di governo, con una certa gradualità di autoritarismo e di inciviltà.

Siamo almeno onesti con noi stessi. Anche prima, ma ora più che mai, dopo il 13 novembre di Parigi siamo nel mezzo di un terremoto drammatico e pericoloso.

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