Fra Renzi e Berlusconi le analogie si sprecano, e da oggi ce n’è una in più: entrambi pensano a un “papa straniero” per salvare la faccia dei rispettivi partiti. Candidati da trovare fuori dal recinto di organizzazioni screditate e in difficoltà. Il premier segretario ne ha bisogno per Roma, l’ex premier dice di cercarne non solo per la Capitale, ma anche per Palazzo Chigi.



E’ evidente che nella politica italiana la traumatica fine dell’esperienza di Ignazio Marino in Campidoglio segna uno spartiacque. Si è aperta una fase nuova, perché la Capitale si va ad aggiungere a un turno elettorale amministrativo già di per sé ricco, migliaia di comuni, e fra essi Milano, Napoli, Torino e Bologna. 



L’unica formazione che può guardare con fiducia a quella scadenza sono i 5 Stelle, che hanno nelle vele il vento robusto dell’antipolitica e che possono solo guadagnare posizioni. Tutti gli altri no. 

Dicono i sondaggi che ad oggi un posto nel ballottaggio per sedersi sulla poltrona che Marino ha lasciato al commissario Francesco Paolo Tronca sarebbe prenotato dai grillini. Per il resto la gara è aperta. Il Pd annaspa, e se l’ormai ex sindaco di Roma farà una sua lista civica, si troverà a dovere scalare non un dolce colle come il Campidoglio, bensì una specie di Everest politico. Da qui la tentazione di affidarsi a personalità estranee al partito, ma con i piedi ben saldi nella città per ribaltare i pronostici infausti. Un Andrea Riccardi, leader di Sant’Egidio, tanto per fare un esempio  (anche se il diretto interessato allontana l’ipotesi), o qualcuno che somigli a questo identikit.



Delle grandi città al voto, secondo i numeri in mano agli esperti di largo del Nazareno, solo Torino è in condizioni di relativa sicurezza, grazie alla ricandidatura data per certa di Piero Fassino. A Bologna si teme il ballottaggio con i 5 Stelle, ma non l’esito finale. Per il resto, rischi altissimi. E un trittico di sconfitte nelle tre maggiori città del paese farebbe scattare intorno a Renzi il “si salvi chi può”, e ridarebbe fiato alla sinistra interna, oggi in ginocchio, che potrebbe tentare di dare una spallata alla leadership. 

Al Nazareno le contromisure sono già allo studio. Per Milano è facile: l’asso pigliatutto risponde al nome di Giuseppe Sala, reduce dal successo di Expo. E Renzi è convinto che il commissario — lodato da tutti, anche da Mattarella — finirà per capitolare e accettare di correre sotto le insegne del Pd, anche se deve la sua ascesa a Letizia Moratti. Papa straniero, quindi, ma vincente al 99 per cento. A Napoli i 5 Stelle sono forti, ma non troppo, e le chances di vittoria sono affidati alla debolezza delle candidature che il centrodestra saprà esprimere. E qui o papa straniero, o usato sicuro, nella persona di Antonio Bassolino.

La situazione dove il Pd proprio non ha speranze con un candidato targato dem è proprio Roma. Qui serve un volto estraneo alla politica per far dimenticare il fiasco di Marino, e sarà la sfida dei prossimi mesi, perché Renzi non può permettersi di perdere senza provare sino allo spasimo a ribaltare i pronostici infausti.

Un disperato bisogno di volti freschi e non marchiati dal passato ha anche Berlusconi, solo che per lui il papa straniero per il Campidoglio ci sarebbe. Alfio Marchini ha già ricevuto la benedizione dell’ex premier, anche se è stato sonoramente bocciato da Giorgia Meloni. Il centrodestra è un arcipelago numericamente significativo, ma senza un leader, e questo è un limite grave. 

Berlusconi mette in gioco anche la premiership, perché si rende conto che il suo nome non è più spendibile, anche se dovesse arrivare una sempre più improbabile riabilitazione attraverso la Corte di Strasburgo. Ma deve fare i conti con il resto del centrodestra, con Salvini, innanzitutto. E a Salvini i papi stranieri non piacciono, come dimostra il gelo intorno all’ipotesi di Marchini a Roma e ancor più intorno a quella dell’ex numero uno dell’Eni, Scaroni, per Milano. 

Fra Lega e Forza Italia i rapporti di forza sono cambiati, ma non in maniera definitiva. La crescita tumultuosa dei consensi salviniani si è fermata, e oggi l’uno ha bisogno dell’altro. Salvini rivendica la guida della coalizione, ma non ha sufficiente consenso per imporsi. Ha convinto Berlusconi a salire sul suo palco domenica prossima a Bologna, ma senza un incontro preventivo a tre (Meloni compresa) si rischia il pasticciaccio.  

Berlusconi si è fatto scappare che la sua presenza a Bologna è necessaria per “controllare” Salvini, per evitare fughe in avanti. Ma la sua capacità di aggregare è ridotta al lumicino. Oltre a Lega e Fratelli d’Italia ci sono tanti altri brandelli da ricucire, da Fitto a (forse) Alfano, in un intreccio di veti incrociati da mal di testa, dal no della Meloni a Marchini a quello di Salvini a Lupi. 

In entrambi i campi la battaglia di primavera è già cominciata con la crisi in Campidoglio. E da come questa partita verrà giocata dipenderà lo scenario futuro delle leadership e delle alleanze con cui il paese andrà alle urne per le elezioni politiche nella primavera del 2018 o — più probabilmente — del 2017.