Il giudizio attribuito a Renzi dai retroscenisti dei giornali è pesante come un macigno: “Così torniamo indietro di vent’anni”. Napoli e la Campania sono sempre più la bestia nera del suo nuovo Pd, e la notizia dell’intenzione del ritorno in campo del 68enne Antonio Bassolino appartiene alla categoria delle polpette avvelenate, perché arriva dopo il caso De Luca, fonte tuttora di grande imbarazzo per il premier-segretario.



All’ombra del Vesuvio emerge insomma un Pd che non vuol saperne di marciare nel segno del nuovo, che non vuol voltare pagina, si lacera e rischia di perdere, in un momento in cui il suo leader appare a livello nazionale padrone della scena per quasi completa assenza di avversari degni di nota.

Nell’inner circle renziano il timore è che il caso Napoli costituisca solo la punta di un iceberg. Si tratti, cioè, dell’affiorare di un male endemico del partito a livello nazionale: l’essere cambiato in maniera epidermica, e non in profondità. Nessuno, in realtà, teme che la leadership renziana corra seri rischi, dal momento che la casa democratica non appare contendibile. Basta infatti che si mantenga la regola delle primarie aperte per la scelta del segretario per mettere Renzi al riparo da qualsiasi tentativo di riscossa dei bersaniani e di tutti coloro che si sentono defraudati del controllo di un partito che sentivano loro proprietà.



Eppure il caso Napoli accende l’allarme su un rinnovamento a metà. In cantiere è un tentativo di sbarrare la strada a Bassolino attraverso le primarie. A bordo campo si scaldano Umberto Ranieri, il più fidato interprete del pensiero di Giorgio Napolitano, e il franceschiniano Leonardo Impegno. In realtà ci si prepara al peggio, cioè a una vittoria del vecchio leone Bassolino, “usato sicuro” per molti, capace di dare una speranza dopo la disastrosa stagione del sindaco de Magistris. In fondo la forza salvifica delle primarie è definitivamente evaporata sulle rive del Tevere, dopo la fine ingloriosa dell’esperienza di Ignazio Marino sindaco. 



Napoli e la Campania sono il tallone d’Achille del Pd. Cinque anni fa il candidato democratico (Morcone) arrivò terzo e rimase escluso dal ballottaggio. E in Regione quella di De Luca, che per di più non è mai andato d’accordo con Bassolino, è stata una vittoria di Pirro, strappata per un pugno di voti e con l’appoggio determinante di listarelle di transfughi del centrodestra.   

Una preoccupante difficoltà nel selezionare la classe dirigente, se al caso Bassolino si unisce la difficoltà di trovare candidati convincenti a Roma per il dopo Marino, ma anche a Milano, dove per assenza di candidati è necessario ricorrere all’uomo-Expo Sala, che per l’incarico che lo ha reso famoso venne designato da Letizia Moratti. Il renzismo mostra quindi in questa fase il suo più grande limite: un leader estremamente popolare, ma che fatica a trovare collaboratori e rappresentanti territoriali all’altezza della sfida lanciata al paese.

A controprova basta citare il caso di Torino, dove le chances di vittoria sono affidate alla ricandidatura di Piero Fassino, che è diventato renziano, ma certo non si può definire nuovo. E in regione, sempre a Torino, c’è un altro “usato sicuro”, Sergio Chiamparino.

La rottamazione, insomma, può attendere. Gli scenari elettorali, del resto, consigliano di non commettere passi falsi. Il consolidamento del renzismo passa infatti per un doppio passaggio elettorale, le amministrative della prossima primavera, e le elezioni politiche del 2018 (o 2017, come in molti ipotizzano). C’è tempo ancora, ma i sondaggi fanno pensare, soprattutto quelli che vedono il ballottaggio (previsto dall’Italicum) più pericoloso quello con il Movimento 5 Stelle. Politicamente oggi nelle indagini demoscopiche l’Italia appare sempre più spaccata in tre parti quasi equivalenti: il primo posto nel ballottaggio appare  scontato appannaggio del Pd, stabilmente oltre il 30% dei consensi, mentre c’è incertezza su quale lista tra centrodestra e grillini arriverà secondo e contenderà a Renzi la vittoria finale. 

Al centrodestra continuano a mancare un leader riconosciuto, mentre i 5 Stelle sembrano non averne bisogno. E nel caso di sfida secca un Di Maio arriverebbe più vicino a Renzi di un Salvini. Scenari molto futuribili, ma avallati da uno dei più accreditati politologi italiani, come Ilvo Diamanti. 52,2% contro 47,8, un soffio. Un dato che fa pensare, che dimostra come sempre più italiani prendano in considerazione un approdo del movimento fondato da Grillo e Casaleggio al governo. E se decidessero di fidarsi dei grillini per Renzi il terreno si farebbe davvero insidioso. 

Da qui la necessità di non sbagliare più mosse, a cominciare dalle scelte per i candidati sindaco, dove non possono bastare gli uomini della vecchia guardia. Un altro caso De Luca sarebbe davvero deleterio. Altrimenti il renzismo non sarà più il renzismo.