“La nuova sinistra di Fassina, D’Attorre e Civati è figlia di Marco Travaglio e non ha quindi nessuna prospettiva elettorale”. A sottolinearlo è Peppino Caldarola, ex direttore de l’Unità ed ex parlamentare dei Ds. Ieri Pier Luigi Bersani ha preso le distanze da Fassina, D’Attorre, Civati e gli altri esponenti usciti dal Pd per fondare la “cosa rossa”. D’Attorre giovedì aveva spiegato a ilsussidiario.net che l’obiettivo è ripartire da una politica economica keynesiana e dalla Costituzione del ’48. La prossima mossa sarà la formazione di un gruppo insieme a Sel, e l’aspirazione di D’Attorre è arrivare al 15%. Una posizione che Caldarola non condivide, anche se ritiene che lo stesso segretario del Pd non sia immune da difetti: “Il dramma di Renzi è Renzi stesso, cioè la convinzione di essere autosufficiente. E’ convinto cioè che lui e il suo gruppo di amici possano bastare a dirigere uno Stato”.
Caldarola, ritiene che il programma dei fuoriusciti del Pd possa stare in piedi?
Non ne sono così sicuro. In teoria uno spazio per una forza di sinistra più radicale c’è, in quanto esiste uno spazio di nostalgia e uno spazio sociale legato a dinamiche sindacali. Questo non vuole dire che ci sia una forza politica in grado di insediarsi al suo interno, e a fare la differenza è il fatto di avere o meno un’idea vincente. La Cosa Rossa nasce in forte polemica con il Pd, e in questo modo si autoesclude da un’ipotesi di governo. E’ questa preoccupazione che ha spinto Bersani a criticare l’operazione di D’Attore e gli altri.
Verso dove vanno gli scissionisti?
La loro ambizione è quella di un’unica formazione di sinistra. Nella storia della sinistra quest’ambizione è sempre stata molto presente. Dal Psiup in poi ci sono state molte scissioni, e tutti questi movimenti hanno avuto una caratteristica comune: l’incapacità di stare insieme. Il narcisismo dei dirigenti, oltre alla ricerca di una purezza dottrinaria, li ha spinti successivamente a rapide scissioni. Anche questa volta non sarà diverso, perché ci sarà una contesa per la leadership tra Fassina, Civati e Vendola. E poi c’è un problema di fondo: questa è una classe dirigente vecchia.
Anche il nuovo leader del Labour inglese, Jeremy Corbyn, non è tanto giovane…
Corbyn però è un vecchio laburista fuori da tutti i giochi, che improvvisamente lancia la sfida alla nouvelle vague blairiana e vince. Al contrario molti degli scissionisti del Pd hanno avuto incarichi di governo, sono stati sottosegretari e presidenti di regione. Finché non si decideranno a trovare un leader trentenne che assomigli al segretario di Podemos, Turriòn, secondo me riusciranno con fatica persino a stare assieme.
Per Piero Sansonetti, i figli di Bersani e D’Alema, che hanno dato origine al renzismo, non possono esserne anche gli anticorpi. E’ così?
E’ abbastanza vero. Il Pd nasce dall’idea del superamento di un partito tradizionalmente di sinistra e della stessa socialdemocrazia europea. Nasce quindi dietro la suggestione di Prodi, come l’idea di una messa in comune di riformismi che in qualche modo raccolgono i frutti, ma anche tagliano le radici sia alla sinistra tradizionale sia al popolarismo cattolico. E’ un brodo di coltura nel quale si è trovato a proprio agio un personaggio fantasioso come Walter Veltroni, che però non ha portato con sé una carica di rottura verso il passato. Questa carica di rottura è arrivata invece solo con Matteo Renzi. E quindi si può ben dire che Renzi è figlio di una scelta politica iniziata con il Pd.
L’idea di fondo degli scissionisti ha quantomeno un senso?
Il vero problema di quanti stanno lasciando il Pd è che stanno ripetendo l’errore classico della sinistra. Si collocano cioè su una posizione che non è propositiva, ma che prevede piuttosto la criminalizzazione dell’avversario. Ieri era Berlusconi, oggi è Matteo Renzi. Quest’impostazione è quanto di meno riformista ci sia. La nuova sinistra di Fassina, D’Attorre e Civati è figlia di Marco Travaglio e non ha quindi nessuna prospettiva elettorale.
Dopo l’abolizione della tassa sulla prima casa, Renzi ha proposto di costruire il Ponte sullo Stretto. C’è chi dice che è il sosia di Berlusconi…
In questa vicenda quello che non accetto è l’obiezione sul rischio di infiltrazioni mafiose legata al Ponte sullo Stretto. Se l’Italia non può costruire infrastrutture perché rischiano di cadere nelle mani della criminalità organizzata, il nostro è un Paese fragile. Lo Stato deve creare le condizioni per fare il Ponte sullo Stretto. Poi la decisione andrà presa sulla base del fatto che gli scienziati ci dicano o meno che esiste un rischio geologico.
In molti però criticano il leaderismo esasperato di Renzi, affermando che è la vera causa dei problemi sul territorio, da Roma alla Liguria.
Il dramma di Renzi è Renzi stesso, cioè la convinzione di essere autosufficiente. E’ convinto cioè che lui e il suo gruppo di amici possano bastare a dirigere uno Stato, ma nella realtà non è così. Renzi apre conflitti non solo con la sinistra, ma anche con le persone che gli sono state più vicine, da Delrio a Chiamparino. Questo dimostra che il premier ha una capacità di produzione di conflitti che non è una caratteristica positiva per chi deve portare il Paese in un’epoca nuova.
Perché Renzi apre così tanti conflitti?
Perché sembra avere fatto proprio il motto di Mao Tse Tung: “Contare sulle proprie forze e lottare con tenacia”. Applicando questa frase del Libretto rosso, Renzi non fa altro che preparare il terreno a Beppe Grillo. Il premier deve abituarsi a collaborare con gli altri, a partire dalle persone che gli sono state più vicine come Delrio e Chiamparino. Lo stesso Bersani, che prende le distanze da D’Attorre, è una figura con cui Renzi può collaborare e non invece un nemico.
(Pietro Vernizzi)