Bologna, nella narrazione materiale dell’Italia democratica, è una città importante (azzardiamo? La più importante). Bologna è la città dei grandi sindaci del Pci, del partito berlingueriano che sembra poter infrangere tutti i tabù pregiudiziali del fattore K (è a Renato Zangheri che gli Usa concedono negli anni ’70 un raro visto d’ingresso, trent’anni prima degli endorsement americani per Giorgio Napolitano e poi per Matteo Renzi), Ma è anche la città che – dopo mezzo secolo – sceglie drasticamente un sindaco di centrodestra, Guazzaloca, quando a Palazzo Chigi c’è il primo-premier-comunista D’Alema.



Bologna è la città alma mater di tutti i cosiddetti “cattolici democratici”: Dossetti, Andreatta, Prodi & C. Quando a fine 2015 scriviamo o leggiamo di Eni, di Telecom, di Jobs Act o di riforma delle pensioni è ancora il loro modo di vedere l’economia sociale di mercato made in Italy, dal pensatoio del Mulino (i bocconiani ultra-mercatisti, venuti dopo, preferiamo già dimenticarli).



Bologna è (stata) la città del cardinale Lercaro: senza di lui l’arcivescovo di Milano, Montini, non sarebbe mai diventato papa Paolo VI e il Concilio Vaticano II – right or wrong – non sarebbe stato quello che è stato (Papa Francesco, in questi giorni drammatici per la Chiesa, ha nominato un nuovo arcivescovo di Bologna, mai per caso).

Bologna è la città del movimento del ’77: dei carri armati per le strade contro Radio Alice, con i nouveaux philosophes a farne la cronaca sui giornali della gauche parigina. Tutti, in quei giorni, pensano a una ritorno di fiamma del ’68 o a una sortita militarista delle Brigate Rosse (che a Bologna commettono poi omicidi atroci, ma non mettono mai radici). Invece è qualcosa che gli analisti del grillismo contemporaneo farebbero bene a rileggere, per comprendere a quali derive possa portare la frustrazione giovanile manipolata dai maitres-à-penser di turno.



A Bologna la strategia della tensione – poco dopo l’assassinio di Aldo Moro e ancora molti anni prima della caduta del muro – uccide 80 persone alla stazione: sei volte più di Piazza Fontana. La democrazia non è mai un pranzo di gala, si conquista e si soffre giorno per giorno.

A Bologna finisce il Nord d’Italia: ben a nord della Firenze del premier Renzi. E a nord degli Appennini il nascente “partito della nazione” di Renzi non ha tuttora una sola bandierina piantata: neppure il ministro (bolognese) dello Sviluppo economico in carica, l’industriale Federica Guidi.

Non sappiamo se Matteo Salvini abbia deciso di convocare a Bologna un’adunata del centrodestra con l’intenzione consapevole di inserirsi in questa grande e accidentata narrazione, di chiedervi spazio e legittimazione: a dispetto dei puntuali incidenti antagonisti e dei nuovi avvertimenti ferroviari delle ultime ore. Di certo non gli si può negare il coraggio di averlo fatto. Né a Silvio Berlusconi lo speciale gusto politico di aver rinunciato al centro della foto di famiglia: col Salvini lepeniano; col ras nel Nordest Luca Zaia; con la borgatara Giorgia Meloni (anche la sua è una narrazione italiana); non da ultimo con Roberto Maroni, governatore di una Lombardia sempre narrativamente distante dalla sua metropoli.

Una foto – da sola – non fa narrazione: quella di Vasto 2011 fra Bersani, Di Pietro e Vendola, è stata stracciata prima ancora di ingiallire, “non-vincendo” neppure le elezioni del 2013. Quella di Berlusconi sul predellino a San Babila – era il 2007 – servì a incassare le successive elezioni politiche, ma nel breve periodo assomigliò a quella (scattata poco lontano) di Mussolini su un’autoblindo fuori dal Teatro Lirico, poco prima di Dongo. Con la differenza che – quattro anni dopo la terribile estate del 2011 – il Cavaliere è ancor vivo. Forse non del tutto vegeto, ma non irrilevante al punto di non farsi desiderare da Salvini a Bologna. E non del tutto senescente da cedere alla retroguardia dei suoi superstiti colonnelli. Su un palco e con un microfono davanti, l’ottantenne Berlusconi regge ancora tranquillamente da solo il confronto con il Grande Narratore quarantenne, installatosi a Palazzo Chigi senza aver vinto neppure una delle tre elezioni (e mezzo) messe in bacheca dal Cavaliere. Se n’è avuta prova anche ieri: senza l’icona Berlusconi è il centrodestra a non essere ancora rilevante.

A Berlusconi è mosso il rimprovero storico – forse definitivo – di non aver compiuto una vera rivoluzione italiana: di non aver condotto il Paese novecentesco fuori dalla contrapposizione ideologica e dai suoi trasformismi compromissori. Il “cattocomunismo” di scuola bolognese ne è stato la versione più alta, ambiziosa e per molti anni funzionante. Ma ora funziona sempre meno. Il centrosinistra ha riconquistato Bologna, ma il sindaco Valerio Merola non è agli annali solo per le battaglie pro unioni gay: anche per la condanna a danno erariale per l’assunzione di un dirigente senza laurea. 

Il grillismo non funzionerà mai, non vuole funzionare. Il renzismo non funziona ancora, o meglio: a nord di Bologna la democrazia elettorale gli impedisce per ora di mettersi in collaudo e lo obbliga a parlare il gergo tecnico-commissariale di un Giuseppe Sala o di un Raffaele Cantone. E lo stesso renzismo – estraneo alle stanze dei bottoni bancarie così come alle residue enclavi sindacali – è ascoltato nelle assemblee industriali solo quando dice “cose di centrodestra”. Perché mai il post-berlusconismo “allo stato nascente” non dovrebbe chiedere una chance? A Bologna, da Bologna, certo.