Il momento dell’euforia scatta poco prima delle 16, quando una ragazza, inquadrata dai riflettori, sale sulla sua sedia, in mezzo al pubblico, nella grandissima e gremita navata centrale della Leopolda, e si mette a cantare a cappella – benissimo – “Cerco l’estate tutto l’anno…”. Dieci secondi dopo, un’altra cantante, poche file di spettatori più in là, sale anche lei sulla sedia e le dà man forte; altre tre, quattro, cinque voci femminili che si aggiungono nel giro di pochi secondi, sempre a cappella, intonando i versi dell'”altro inno” nazionale, finché scatta la musica, ed è subito tripudio.
E’ azzurro il pomeriggio della Leopolda, e lo spacchetto musicale serve a introdurre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni facendo da contrappunto a un video appena proiettato in cui un allucinato Imam di Brest sproloquiava sul fatto che, appunto, chi ama la musica è vicino al demonio. Bèccati “Azzurro”, tiè! Provvederà di lì a poco Gentiloni – “la forza dei nervi distesi”, come recitava un mitico, antico slogan di un tè negli Anni Sessanta – ad illustrare e ribadire la validità della linea del governo sull’Isis e sulla guerra, la preferenza per le soluzioni diplomatiche (“forse siamo alle porte di uno spiraglio di trattativa”) e poi la conferma dell’apertura ai migranti alla maniera italiana, contro tutti i muri, contro tutti i nazionalismi, contro chi si chiude e non capisce che il futuro sta nell’accoglienza governata. Dando, Gentiloni – e non era superflua – anche una sua definizione di “sinistra”, peraltro bella: “La differenza tra destra e sinistra”, dice l’ex braccio destro di Rutelli, “è quella tra chi pensa che il tema dell’immigrazione debba essere fonte di illusioni e di paura, e chi pensa che invece sia una risorsa e che debba essere organizzata e gestita. Noi siamo la sinistra, la sinistra del Pd e del governo Renzi”.
Buono a sapersi, nel senso che la carrellata di video antipatizzanti contro la Cgil, contro Vendola, contro Landini, contro Barbagallo, che aveva seguìto – a inizio mattina – un riepilogo dei numeri dell’occupazione e del Jobs Act, aveva comunque colpito qualcuno, in platea. In fondo una volta anche quelli erano compagni e anche per loro, nel congresso del Pci-Pds-Pd c’erano sempre applausi…
Ma tant’è: l’impressione inevitabile – e quindi né simpatizzante né ostile – è che questa Leopolda sia molto più convention aziendal-culturale che congresso di partito. Anzi, è proprio sbagliato timbrarla come congresso-ombra del Pd, perché in questa vecchia stazione, della minoranza non c’è, appunto, neanche l’ombra. Il clima è inevitabilmente autocelebrativo. La precedente Leopolda, la numero 5, s’era svolta alla fine dell’ottobre 2014, dopo neanche sie mesi di governo, era presto per decantare risultati, 80 euro a parte. Adesso, si può, con buona pace dei sofistici e di chi non è d’accordo, che tanto qui non c’è. I nemici sono evocati ma irrisi, con quell’arroganzella un po’ caustica un po’ bonaria tipicamente fiorentina, che non sai mai quant’è bonaria e quanto voglia bruciare. I “sinistri” alla Vendola ricordati prima; i giornali d’opposizione, inchiodati a una sorta di “colonna infame”, con dieci prime pagine proiettate sul maxischermo, che, secondo gli organizzatori, sono state tutte clamorosamente sbagliate, per sette volte del “Fatto” e poi di Libero e del Giornale. E un poi un “blob” di Brunetta, come sempre inquadrato dall’alto in basso, fosse alto nella media sarebbe più difficile sfotterlo.
Però, come suol dirsi, le chiacchiere “stanno a zero”. La vera protagonista di questa convention del renzismo di governo è una generazione, prima e piuttosto che un gruppo d’opinione. Una generazione tra i trenta e i quarant’anni, che per la prima volta ha in mano il Paese, non ha ribellismi, non vuole la rivoluzione, e fa capire di star lavorando per riformare e comandare, convinta di sapere come si fa, per costruirsi una solida longevità di potere, anche se naturalmente nega ogni progetto in proposito. In fondo, la parola chiave – “rottamazione” – viene attuata alla lettera: si rottama il vecchio per comprare il nuovo, e farlo durare.
Però attenzione, non era mai successa prima in Italia una cosa del genere. I vivai giovanili della politica – dalla storica Fgic comunista ai giovani repubblicani – erano una specie di asili infantili che fornivano ricambi alle segreterie dei big. Questi qui no. Hanno deciso, trovandosi un capo determinatissimo, che i nuovi big dovevano essere loro. E ci sono riusciti, senza se e senza ma.
A fronte di tutte le possibili discussioni sul merito dell’azione politica di Renzi, del suo governo e del suo Pd, uno esce dai saloni della Leopolda con addosso la netta sensazione che quei discorsi sono opinabili mentre una cosa è certa: la generazione al potere è definitivamente cambiata. I capelli bianchi di Poletti e grigi di Del Rio o di Bassanini sono tollerati, ma sono comprimari. E questa nuova squadra di giovani leoni ha energia da vendere, determinazione, sicurezza di sé. Non dubita di avere soluzioni ai problemi migliori di quelle viste in atto in passato – in questo ha anche avuto spesso ragione – ma a prescindere dal merito, va avanti come un panzer a fare quel che vuole.
“Un punto di incontro, tantissimi spunti, un insieme molto interessante: questa alla fine è la Leopolda”, sintetizza pressappoco Filippo Sensi, l’ormai celeberrimo, e bravissimo, portavoce di Renzi, che è alla sua seconda presenza nella stazione fiorentina. E ha ragione. Per riconoscergliela, basta tagliar via, dalle attese ideologiche di tutti gli ultracinquantenni su una riunione del genere, quella irrinunciabile dose di “sì, però!”, di “scusa compagno ma non sono d’accordo”, che ha marchiato come una stimmata tutti i congressi e tutte le riunioni politiche di tutti i partiti della Prima e Seconda Repubblica, paradossalmente compresa Forza Italia, almeno dall’indomani del “Che fai, mi cacci?” in poi, e che invece qui proprio non c’è. Come non c’è mai nelle convention aziendali. Vi immaginate che al meeting dei dirigenti della Fiat qualcuno possa alzare il ditino e chiedere a Marchionne: “Dottore, non pensa di aver sbagliato il prezzo della nuova Panda?”. Figuriamoci.
Il resto sono appunti di cronaca, variazione garbate sui temi del plurievocato presidente Renzi – variazioni in certi casi anche molto personali e autorevoli, sicuramente con i ministri Del Rio, Poletti e Gentiloni, ma anche la Madia s’è ben difesa: ma tutto comunque resta sempre molto strettamente agganciato al Renzi pensiero. Chi ricorda quell’attesa curiosità che scandiva i discorsi di un Tremonti o di un La Russa durante i governi Berlusconi, in attesa di qualche sparata eterodossa rispetto ai “mi consenta” del Cavaliere, sappia che qui non c’è da attendersi nessuna eresia. Una svirgolata fuori linea si può serenamente escludere a priori.
Ma per carità: se un governo è monocolore o si candida ad esserlo, se il presidenzialismo smette di essere una parola vana scimmiottante senza speranze i modelli stranieri, se diventa una regola, ma allora è normale che, come in America, tutti i ministri si chiamino e siano “segretari”…