Il ministro Maria Elena Boschi – nella sua autodifesa anti-sfiducia, ieri davanti alla Camera – ha aggiunto ben poco al pochissimo che è noto sui suoi rapporti con Banca Etruria e con il suo dissesto. Anzi, il primo elemento di inaccettabilità politica del suo intervento è appunto questo: l’avervi posto al centro il coinvolgimento del padre e dei suoi familiari, per di più in termini di “familismo amorale” giù usati dalla madre del ministro, in un’intervista al Corriere della Sera.
“Se mio padre ha sbagliato, pagherà” ha detto Boschi: ma in uno stato di diritto è normale, scontato. Affermarlo in modo accorato non può rafforzare in alcun modo la fiducia che i parlamentari e più in generale gli elettori hanno, devono avere in un ministro della Repubblica. Apprendere d’altronde che il padre di un ministro era vicepresidente di una banca andata in fallimento non aiuta certo la credibilità di un ministro: al di là dell’orgoglioso affetto ribadito dalla figlia in suo padre. Il padre-vicepresidente in questione, per di più, è già stato sanzionato dalla Vigilanza della Banca d’Italia per gravi irregolarità nell’esercizio delle sue funzioni di amministratore di Banca Etruria.
“Trovo suggestivo – ha detto ancora il ministro – sentire che con un pacchetto di 1.557 azioni io fossi la proprietaria di Banca Etruria o che lo fosse la mia famiglia”. Invece è più che suggestivo, ministro Boschi. Lo è in un Paese che fin dalla prima affermazione elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994 dibatte di blind trust, di legge sul conflitto d’interesse, di opportunità che chi ricopre cariche nell’esecutivo sia separato dalla proprietà delle aziende: e questo vale per chi detiene la maggioranza di un gruppo media quotato come Mediaset o un piccolo pacchetto di una banca quotata. Tv e banche non sono una piccola azienda di famiglia non quotata: sono aziende-Paese, per definizione al centro di interessi forti e ramificati. Nella democrazia “narrata” dal centrosinistra contro il centrodestra – anche prima dell’avvento di Matteo Renzi – sarebbe stato quindi molto opportuno che il ministro Boschi – e forse anche i suoi familiari – non fossero azionisti di Banca Etruria; e che il padre Pierluigi non fosse amministratore, tanto meno vicepresidente.
“Né io, né la mia famiglia abbiamo acquistato o venduto azioni da quando io sono stata al governo, nessun plusvalore può essere stato realizzato”. Da cittadini ne prendiamo atto. Tuttavia in un passaggio politico-istituzionale come il “caso Boschi” non è sufficiente la parola dell’interessato, né l’appello alla privacy: sarebbe quanto meno opportuna una conferma autorizzata dal ministro da parte di istituzioni custodi del suo patrimonio finanziario (anche da eventuali fiduciarie-schermo). Ed è curioso che il premier Renzi, affidando all’Anac di Raffaele Cantone il futuro arbitrato a favore dei risparmiatori traditi, abbia virtualmente tagliato la Consob: authority dei mercati con pieni poteri ispettivi.
In secondo luogo Boschi non ha fatto riferimento ad altri titoli emessi da Banca Etruria: a cominciare dai bond subordinati che sono al centro delle polemiche e soprattutto delle misure di rimborso/risarcimento proposte dal governo di cui Boschi fa parte. Il ministro e/o i sui familiari possiedono o hanno posseduto obbligazioni ibride Etruria dal febbraio 2014 in poi? Se non ne ha mai possedute perché il ministro non ritiene di chiarirlo?
Non ultimo è il tema della partecipazione del ministro a varie riunioni del Consiglio dei ministri. La prima è quella del 20 gennaio scorso, quando il governo varò la riforma-blitz delle Popolari, con rialzi anomali del titoli. La seconda è quella del 19 novembre scorso, quando il governo approvò la direttiva sulle risoluzioni bancarie che ha escluso da rischi legali gli amministratori di banche dissestate con la nuova procedura europea (al di là delle stesse previsioni di base Ue). Il terzo Consiglio dei ministri al quale Boschi non avrebbe dovuto tassativamente partecipare è quello che ha deciso la risoluzione di Banca Etruria, lo scorso 22 novembre.
E naturalmente non possiamo sapere se – al di là di comportamenti formalmente accettabili – Boschi è venuta a conoscenza diretta di informazioni sensibili, eventualmente condivise in modo improprio con soggetti interessati. Ma come ha affermato ieri un anonimo “dirigente dem” citato da ilmessaggero.it, “a differenza di altri casi, come Cancellieri e Lupi per Maria Elena non c’è niente, nè un orologio, nè un’intercettazione”. Appunto: solo un’intercettazione giudiziaria informò a suo tempo il parlamento e i cittadini delle manovre del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio o della soddisfazione del leader Ds, Piero Fassino, per “avere finalmente una banca”. Nei confronti del ministro Boschi ci rimarrà per sempre la curiosità: naturalmente “strumentale”, ha detto oggi l’interessata, con perentorio tono auto-assolutorio.