Nella matrioska della “questione bancaria” in Italia, il caso del procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, sta rapidamente prendendosi la ribalta, dopo i primi esiti del “caso Boschi” e del “caso Visco”, per quanto affannosi e probabilmente temporanei. Come il ministro delle Riforme e il governatore della Banca d’Italia – entrambi pericolosamente affacciati sul baratro della sfiducia istituzionale e delle dimissioni -, il capo della Procura di Arezzo sta lottando per evitare una trappola: una qualche pronuncia del Csm sul suo ruolo di consulente della Presidenza del Consiglio. Il passo verso un trasferimento-rimozione per incompatibilità ambientale nelle indagini sul caso Etruria sarebbe in apparenza breve. Ma potrebbe anche maturare: come – per ora – per Boschi e Visco.



Nell’attesa, il “caso Rossi” non è meno curioso e istruttivo. Ieri, per esempio, le agenzie hanno scandito ora per ora l’attesa in Procura dei funzionari della Banca d’Italia, corrieri dell’ormai famosa relazione d’ispezione a Banca Etruria. Una scena surreale, nel 2015, quella dei fotografi che attendono l’auto di Bankitalia: come i motociclisti dei carabinieri mezzo secolo fa. L’ultima ispezione formalizzata all’Etruria è del 2014, un anno primo del commissariamento. E la lettera ultimativa firmata da Visco e letta al cda data addirittura due anni fa. Il procuratore capo non ha mai sentito il bisogno di chiederla? E anche oggi – un mese dopo la drammatica risoluzione dell’Etruria – tutto quello che ritiene di fare è star rintanato nel suo studio ad aspettare che un usciere bussi? Ma anche la Banca d’Italia, evidentemente, non si è sentita in obbligo di trasmettere i risultati della sua attività di vigilanza amministrativa alla Procura: o quanto meno di accertarsi che Rossi ne fosse informato.



Ma nella vicina Siena le cose sono forse andate diversamente? La Procura ha accertato – a tamburo battente – che il “caso Montepaschi” non è l’unico vero crac del sistema bancario italiano, ma una vicenda di minuscole creste sui cambi da parte di un gruppo di funzionari. La versione processuale collima con le carte della Vigilanza? E che dire di Vicenza? La Banca d’Italia, per la verità, ha messo settimane fa sul suo sito un’inedita “versione” della crisi della Popolare dal punto di vista di una vigilanza quindicennale. Ma anche il locale procuratore capo, dopo aver indagato il presidente della PopVi, Gianni Zonin, sembra aver messo il fascicolo in un cassetto. Tempi lunghi.



Questo notato, il procuratore di Arezzo ha effettivamente altro a cui pensare in queste ore: proteggersi dall’allontanamento, ma non per non aver indagato su un crac bancario a protezione di migliaia di risparmiatori residenti nella sua giuridizione. No, Rossi deve e vuole guardarsi dalle insidie del presunto conflitto d’interesse come consulente della Presidenza del Consiglio del governo di cui fa parte il ministro-figlia-di, etc etc. Nel frattempo, comunque, anche ieri la posizione del magistrato è rimasta fermissima, come quella del ministro: il (mio) caso non esiste, l’ho deciso io e dovete fidarvi di me. 

E se anche non vi fidaste di me, non sarete voi (opinione pubblica ma alla fine neppure parlamentari della democrazia sovrana) a decidere su di me. Io riconosco un solo “giudice” sovrano sul mio operato: il Consiglio superiore della magistratura. Cioè i miei pari: in larga maggioranza nell’organismo di autogoverno della magistratura. Quest’ultimo, a ogni passaggio-chiave della storia repubblicana, si rivela nulla meno di un corpo separato, di uno Stato nello Stato, sostanzialmente al di fuori e al di sopra della democrazia. Regolato dagli equilibri interni e autoreferenziali di una corporazione monopolista di un potere-servizio pubblico.

La matrioska della “questione bancaria” sta (ri)mettendo sotto gli occhi di tutti, in Italia, anche questo.