La diffusione della lettera inviata della Commissione Ue al ministero dell’Economia italiano riguardo la risoluzione di Banca Etruria e di altre tre banche italiane non aggiunge nulla a quanto era già noto. Il testo originale inglese – rivelato dalla Reuters – conferma la motivazione del no di Bruxelles a Roma sull’ipotesi di utilizzo del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), in quanto ritenuto “aiuto di Stato”. Ma non è questo il punto. La controversia era ben conosciuta – anche ai media – anche prima delle quattro risoluzioni decise dal governo il 22 novembre. E per gli addetti ai lavori alcuni punti erano fermi allora come lo sono oggi.



Primo: l’intervento del Fitd – in luogo di un distinto Fondo nazionale di risoluzione (Fnr), poi effettivamente attivato – non avrebbe comunque salvato i possessori di obbligazioni subordinate delle banche risolte (come purtroppo era anche il risparmiatore suicida di Civitavecchia).

Secondo: la leva-Fitd avrebbe invece reso meno oneroso il salvataggio finanziato dall’intero sistema bancario italiano. Terzo: un salvataggio via Fitd sarebbe stato altrettanto privato di quello via Fnr, al riparo di ogni sospetto di aiuto pubblico; è qui che la posizione dei due commissari Ue, la danese Margrethe Vestager alla Concorrenza e il britannico Jonathan Hill ai Servizi finanziari, è oggettivamente attaccabile. Quarto: Bruxelles avrebbe invece potuto vantare qualche ragione se avesse contestato all’Italia il virtuale prosciugamento del Fitd per sei anni (non si possono usare per salvare banche, azionisti e obbligazionisti i fondi accantonati per proteggere i depositanti).



Tuttavia, si diceva, le questioni sollevate dalla diffusione della lettera sono altre: tutt’altro che tecniche. Nel metodo il disclosing di un memorandum riservato inviato da due membri dell’esecutivo Ue a un collega ministro di un Paese-membro è un atto politicamente molto forte: sul terreno mediatico equivale alla pubblicazione di un’intercettazione secretata, ma al centro c’è una discussione “di Stato” su gravi dissesti bancari, al massimo livello istituzionale dell’Unione europea.

Non ha torto chi parla di “strappo”, uno strappo tutto interno dell’architettura dello “Stato europeo”. E l’Italia è un Paese fondatore della Ue e uno dei quattro più pesanti con Germania, Francia e Gran Bretagna. L’atto di ieri – attribuito da tutti gli osservatori al governo italiano – è certamente meno teatrale del referendum indetto in luglio dal governo greco sulla bozza di intesa finanziaria con la stessa Ue; ma non è meno sostanziale e imprevedibile nelle conseguenze.



Nel merito, il governo Renzi ha scelto questo canale politico-mediatico “non convenzionale” per affermare questo teorema: i dissesti bancari, le perdite dei risparmiatori e le loro rivolte, le polemiche politiche, la delegittimazione delle authority di vigilanza, i risvolti giudiziari densi di incognite e quant’altro sono in definitiva tutti legati alla Ue, ai suoi (presunti) intenti punitivi verso l’Italia, al suo esasperato rifiuto degli aiuti pubblici anti-crisi, ai più-che-sospetti di discriminazioni competitive operate dai paesi del Nord Europa verso quelli mediterranei.

L’aggressività del premier italiano verso l’Europa rigorista a trazione tedesca non è una novità e neppure il suo ricorso, per quanto abile, alla manipolazione narrativa. Questa volta, tuttavia, l’impennata anti-Ue appare tanto più aperta e violenta quanto più essa è funzionale alla difesa essenzialmente interna: quella che deve proteggere il ventre politicamente molle e pericoloso del crack Etruria e del coinvolgimento del ministro Maria Elena Boschi (a proposito: il parere dell’Antitrust italiano – negativo sul presunto conflitto d’interesse di Boschi – è risuonato ieri improprio e stonato: soprattutto da parte del presidente Giovanni Pitruzzella, indagato per frode giudiziaria).

E’ pur vero che la spregiudicatezza di Renzi non appare priva – come in altre occasioni – di strutturazione politica. Ieri sera 42 senatori del Pd hanno depositato una proposta di istituzione di una commissione d’inchiesta sull’operato della vigilanza di Bankitalia e Consob dal 2000 a oggi. Mossa non meno pesante della diffusione della lettera Ue. La sfiducia al governatore in carica, Ignazio Visco, appare ora quasi espressa dal partito di maggioranza e – quel che è più rilevante – l’inchiesta punta a far luce anche sull’operato di Mario Draghi: governatore dal 2006 al 2011, poi presidente della Bce, massimo fautore e poi primo gestore dell’Unione bancaria; padre di “Basilea3” e anche del famigerato “bail in” sperimentato per la prima volta in Italia. Un Draghi, peraltro, lui pure in trincea contro il rigorismo tedesco ostile alla prosecuzione degli stimoli mometari nell’eurozona.

L’emergenza politica interna appare in ogni caso uno stimolo (politico) troppo forte per Renzi-il-rottamatore. Ed è comprensibile la preoccupazione che – in questi giorni – caratterizza ad esempio le ripetute uscite dell’ex premier Mario Monti: quasi certo di essere fra i primi imputati di un “processo popolare” a quanto accadde nella decisiva estate del 2011. Fu allora – con lo spread a 575, fra le risatine di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e i bombardamenti in Libia – che l’Italia affondò assieme alle sue banche, che avevano invece resistito al terribile autunno 2008. Fu allora che il destino recente dell’Italia fu deciso da due “Mario”: Draghi e Monti. Il primo – già indicato per il vertice Bce – firmò la lettera-diktat che spinse il suo paese verso l’austerità e un lungo ciclo recessivo. Il secondo – blindato dalla toga di senatore a vita concessagli ad hoc da Giorgio Napolitano – sottoscrisse come premier tecnico tutte le direttive “dell’Europa e dei mercati”. E se aggiungiamo che la commissione d’inchiesta parlamentare dovrebbe occuparsi anche delle Opa bancarie del 2005, della cacciata di Antonio Fazio da Bankitalia e del crack Mps-Antonveneta, il copione di una potenziale “Norimberga delle banche” si profila anche più denso e dirompente di Mani Pulite.

Ps: sarà un caso, ma anche nel 2005 contro le banche italiane e a favore di quelle europee all’offensiva a sud delle Alpi c’era una commissaria nordica all’Antitrust, l’olandese Neelie Kroes, fiancheggiata dal commissario britannico Charlie McCreevy.