Una maggioranza per sorreggere il governo, una per fare le riforme costituzionali e la legge elettorale, una terza per eleggere Mattarella al Quirinale. Un unico regista spericolato, lui, Matteo Renzi. Il gioco, però, si è infranto nel momento stesso in cui si è realizzato, perché sull’altare della scelta del capo dello Stato due delle tre maggioranze sono saltate per aria, sia quella che si è coagulata intorno al nome dell’ex vicepremier di D’Alema, troppo passeggera e fragile, sia quella figlia del patto del Nazareno.



Difficile pensare che un giocatore freddo e calcolatore come Renzi non avesse messo in conto un esito simile. La sua priorità è stata di serrare le fila del proprio partito, nella convinzione che nel cammino delle riforme il più sia fatto, e per portarle a compimento non servano più numeri ampi.

In maniera erronea nel post Quirinale molti osservatori si sono esercitati intorno al dilemma se il premier abbia o meno i numeri per proseguire. I numeri, infatti, ci sono e sono solidi, anche se espressi all’interno di un parlamento sempre più debole e lontano dal corpo elettorale che lo elesse due anni fa. Basti pensare all’estinzione di Scelta Civica, 10% dei voti alle elezioni, e sostanzialmente auto-dissoltasi nel Pd, almeno in Senato. E, accanto a questo, la diaspora dei 5 Stelle e la scissione del Pdl. 



Alla Camera Renzi può contare su quasi 400 voti, a Palazzo Madama sfiora quota 170. E ad avere più chiara di tutti questa situazione è proprio il presidente del Consiglio. Non a caso non perde occasione per insistere sulla necessità delle riforme, quelle dell’architettura dello Stato come quelle economiche. Le definisce imprescindibili per superare i limiti del paese, mentre incita imprenditori e lavoratori a mettersi in competizione con il primo paese manifatturiero d’Europa, la Germania, per tentate un improbabile sorpasso.

Renzi non corre rischi politici concreti a breve. E’ la completa assenza di alternative credibili che lo rende forte. Manca un vera e seria opposizione, spaccata com’è in mille rivoli. Per questo il suo peggior nemico è la palude. Non può rallentare, o, peggio, fermarsi.



Berlusconi non riesce a disincagliare Forza Italia dalle secche, anzi è ormai vicinissimo alla resa dei conti con Fitto. Il commissariamento del partito azzurro in Puglia suona come una dichiarazione di guerra. Persino dentro la Lega, l’unica opposizione in crescita secondo tutti i sondaggi elettorali, le acque si sono improvvisamente agitate per l’esplodere del contrasto fra l’emergente Salvini e il sindaco di Verona Tosi, che contesta l’espansione a Sud del partito e minaccia di presentarsi autonomamente alle regionali del Veneto, che costituiranno il vero banco di prova del centrodestra possibile.

Salvini si trova davanti a un bivio: o cacciare Tosi, e pagare un prezzo salato, oppure cercare di recuperarlo, a costo di far correre la Lega in splendida solitudine, senza neppure l’intesa con Forza Italia. E in quel caso il rischio di regalare il Veneto al Pd della Moretti si farebbe concreto. Di fatto Tosi sta impedendo a Salvini di muoversi liberamente sullo scacchiere delle alleanze, con il leader leghista che si augura di poter riprendere piena libertà d’azione se la manifestazione anti-Renzi convocata a Roma per il 28 febbraio sarà un successo.

In Piazza del Popolo ci sarà la Meloni, ma non Forza Italia. E un’intesa con ciò che resta di An non è certo massa critica sufficiente per impensierire Renzi, è solo una piccola intesa. Berlusconi, intanto, rimane sospeso fra il dialogo con Salvini e quello con Alfano, il quale — se respinto — sarebbe ancora in tempo per bussare alle porte di Renzi e del Pd. Certo, quella scelta equivarrebbe a bruciarsi i ponti con il centro destra, sarebbe di fatto senza ritorno. Ma sarebbe rassicurante per il numeroso ceto politico che è salito sul carro di Ncd e di Area Popolare.

Ancor più nebuloso è immaginare il futuro del Movimento 5 Stelle, la cui strategia d’opposizione è sempre più oscura e ondivaga. Renzi può dunque dormire sonni abbastanza tranquilli. Gli basta tenere a bada la sinistra interna, finita all’angolo sulla vicenda del Quirinale.

L’altro dato che a Palazzo Chigi dovrà essere tenuto presente è che è cambiato l’inquilino del Quirinale. Mattarella è schivo di carattere, lontanissimo dal suo predecessore, ma sarebbe un grave errore immaginarlo come un presidente silente o addirittura accondiscendente con il governo. Già dalle prime mosse ha fatto capire di voler essere arbitro sul serio. E nel giro di colloqui con l’opposizione ha manifestato l’intenzione di voler ricucire in prima persona lo strappo conseguente alla sua elezione. Grillo l’ha capito, Salvini no, decidendo di spedire sul Colle solo i due capigruppo. 

Mattarella non ha alcuna intenzione di entrare direttamente nel gioco. Ma userà tutta la sua moral suasion per evitare che l’aula sia mezza vuota nel momento in cui si voterà la nuova legge elettorale. E l’aggravarsi della crisi libica potrebbe facilitare questo sforzo. Ma la stessa pressione verrà esercitata nei confronti del governo, perché non debordi: nessuno sconto per nessuno, neppure per Renzi. Le regole della nuova coabitazione, insomma, sono ancora tutte da scrivere.