Un singolare inedito si affaccia sulla turbolenta e confusionaria politica italiana. Dopo vent’anni in cui millanta partiti hanno cambiato nome mantenendo lo stesso personale e lo stesso impianto, ne arriva uno che fa il contrario: mantiene il nome ma modifica radicalmente il contenuto. Il singolare primato spetta alla Lega formato Salvini: il partito più vecchio, anzi l’unico sopravvissuto alla prima repubblica, passato attraverso la rovinosa caduta del “lider maximo” Bossi e della sua colorita e famelica corte, e approdato a una nuova rampante segreteria dopo le grandi pulizie interne dell’“operazione scopa” che ha avuto per protagonista Maroni.
Resta dunque la ragione sociale, anche se il suo attuale segretario (come già il suo predecessore, peraltro con un fiasco totale) vuole estenderla a livello nazionale (qualcuno ricorda la farsesca Lega Sud Ausonia?). Mutano invece gli obiettivi e le strategie, e in maniera decisamente drastica: a mettere in fila pensieri, parole, opere e pure omissioni del Salvini degli ultimi mesi, non si ritrova pressoché nulla del leit-motiv leghista agganciato alla Padania e alle plurime varianti tra i due estremi di federalismo e secessione. Ne esce invece l’immagine di un partito che si propone come via italiana al lepenismo francese, ma anche e soprattutto come raccoglitore di tutti gli scontenti, i malumori, i disagi, le proteste diffusi nell’elettorato italiano; in qualche modo, un’alternativa a un grillismo che pare in fase declinante, e pure un’Opa dell’urna nei confronti di quella parte del popolo di centrodestra che si sente orfano di Berlusconi e del berlusconismo.
Per tenere insieme questo minestrone composito, il segretario del restyling del Carroccio usa al massimo l’ingrediente della comunicazione, tra un proclama e una comparsata televisiva, un petto villoso e uno sgarbo istituzionale, come lo sdegnoso rifiuto a presentarsi al Quirinale (ma non era stata anche la Lega a chiedere a Mattarella di essere ricevuta, insieme alle altre opposizioni?). In questo show permanente, Salvini si è dato il ruolo del “diversamente Matteo”, quasi a proporre un’immagine uguale e contraria di Renzi. E i sondaggi sembrano premiarlo, al punto da metterlo in concorrenza con lo stesso Berlusconi come guida del centrodestra.
E tuttavia i numeri non sono tutto, specie se si tratta di quelli virtuali, non di quelli concreti dell’urna. Perché la Lega formato Salvini può anche centrare una percentuale a due cifre, ma il punto è: per farne cosa? Una minoranza che fa opposizione a prescindere, ma priva di peso politico come fu a suo tempo il Carroccio di Bossi dal ’96 in poi, e fino alla riconciliazione con Berlusconi? D’altra parte, anche questo ritorno al “volémose bene” tra il Senatùr e il Cavaliere ha finito per rivelarsi improduttivo: la Lega di governo è rimasta subalterna a Forza Italia prima e al Pdl poi, senza portare a casa nulla di sostanziale rispetto alle sue battaglie di fondo.
Dietro questi scenari ne compare un altro. L’odierna Lega è spaccata in due tra quella del segretario e quella dell’emergente sindaco di Verona e segretario della Liga Veneta Flavio Tosi. Quest’ultimo punta a un centrodestra radicalmente rifatto, che al limite nel medio-lungo periodo accantoni la stessa Lega, per dare vita a quel soggetto di centrodestra formato europeo che possa fare da riferimento all’elettorato moderato. Entrambi guardano all’ormai inevitabile sfaldamento del blocco forzista, e probabilmente nessuno dei due è destinato a prevalere: ciascuno ne erediterà una parte. Il punto è che la linea-Salvini è di stampo isolazionista, con forti difficoltà a fare alleanze con il resto del centrodestra, mentre quella Tosi guarda a un’area composita, ma unita nel tenere come bussola il popolarismo europeo.
Prima o poi queste due linee entreranno in collisione, verosimilmente più prima che poi: le elezioni di primavera chiameranno al voto una sola grande Regione del nord, il Veneto in cui il governatore uscente Zaia, leghista anch’egli, si trova in queste settimane a dover navigare in una sorta di Scilla e Cariddi politiche. A parole, nessuno discute della sua riconferma; il nodo vero sta nel vedere come e con chi. Una situazione cui guarda con comprensibile interesse un centrosinistra che in Veneto è riuscito regolarmente a perdere di brutto, anche per i propri limiti. E che magari stavolta potrebbe invertire la tendenza, sia pure grazie alle più classiche baruffe chioggiotte. Di puro stampo goldoniano, ma con una sostanziale differenza: quelle facevano ridere.