Questa settimana sono attesi i decreti attuativi del pacchetto “La Buona Scuola” con cui il governo intende “riscrivere le regole” del sistema formativo, come ha ribadito di recente il premier Matteo Renzi. Il progetto cerca di chiudere definitivamente l’annosa questione dei circa 123mila precari (obbligo imposto dall’Unione Europea), impiegando a questo scopo quasi tutti i fondi disponibili e lasciando ben poco ad altri obiettivi previsti nel piano, come la formazione degli insegnanti o l’innovazione tecnologica. 



La proposta tocca anche altri punti importanti, come la carriera dei docenti legata al merito ma, nel complesso, avrebbe potuto essere più coraggiosa. Non bisogna dimenticare infatti che dalla scuola dipende chi saranno gli adulti di domani e come porteranno avanti la vita del Paese. Studi internazionali certificano che una proposta formativa di qualità dipende da: un progetto chiaro, condiviso, controllato e modificato sugli esiti della verifica; insegnanti selezionati in base alle esigenze del progetto e non con criteri burocratici; dirigenti in grado di usare le risorse in modo flessibile e di acquisirne di nuove; famiglie e studenti che partecipano in modo attivo; un potere centrale che dialoga con le scuole fissando poche regole essenziali e controllando il raggiungimento degli obiettivi. 



Si tratta — alla radice — dei temi dell’autonomia, rimasti per lo più sulla carta a diciotto anni dalla legge 59 che sancì la trasformazione delle scuole in “istituzioni scolastiche dotate di autonomia gestionale e personalità giuridica”. Nemmeno il secondo principio essenziale all’evoluzione del sistema formativo, quello della parità scolastica, ha fatto passi avanti dalla legge 62 voluta ormai quindici anni fa dall’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, legge che, benché rimasta senza copertura finanziaria, ha equiparato scuole statali e paritarie in un unico sistema pubblico.



Anche in tema di parità, studi comparati sui sistemi scolastici, insieme all’evidenza dei cambiamenti sociali in atto, mostrano come continuare a far coincidere “scuola pubblica” con “scuola gestita dallo Stato” sia ormai anacronistico e deleterio per il bene del servizio pubblico. Sistemi di scuole autonome e paritarie, di diritto pubblico e privato, sono concepiti ormai in tutti i paesi avanzati per favorire una competizione virtuosa tra scuole in funzione della qualità e per costruire un sistema che valorizzi forza ideale, creatività ed energie presenti nel tessuto sociale, secondo il principio di sussidiarietà. E’ utile ricordare che in Italia le scuole paritarie sono promosse da ordini religiosi, ma anche da laici di diverse estrazioni culturali e che il finanziamento pubblico della scuola privata è previsto in quasi tutti i paesi dell’Unione europea garantendo l’accesso e l’iscrizione libera e gratuita per tutti gli studenti. 

E’ davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni, ma ad esempio a partire da una sperimentazione controllata, che preveda una autonomia piena, didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole statali. E, per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie. Questo permetterebbe senza traumi di continuare sul piano economico la strada intrapresa da Berlinguer su quello giuridico. E sarebbe un riconoscimento per i 2 miliardi e 680 milioni di euro che lo Stato risparmia grazie all’esistenza delle scuole paritarie con il loro milione di studenti. Nell’orizzonte delle riforme verso cui deve avviarsi il nostro Paese questo nuovo approccio alla scuola, prima o poi, dovrà essere intrapreso.