Il patto è morto, viva il patto. Come uno spettro dai contorni incerti, il frutto del colloquio che si svolse a Largo del Nazareno ha segnato l’ultimo anno della vita politica italiana. E incerto è oggi se la sua cancellazione sarà totale, oppure se i suoi frutti in termine di legge elettorale e di revisione costituzionale resisteranno anche al di fuori della cornice che li ha prodotti.



Quel che è certo è che alla fine dell’ennesima giornata di passione dentro Forza Italia resta tanta confusione, ma nessun fatto concreto. I capigrupppo hanno dato le dimissioni, come sollecitato da Fitto a gran voce da giorni, ma Berlusconi le ha immediatamente respinte. Verdini ha litigato con l’ex Cavaliere, ma è ancora al suo posto, il capo dei frondisti dice peste e corna del resto del partito, ma non ha nessuna intenzione di andarsene. 



Tutto risolto? Niente affatto. I problemi rimangono tutti lì, e la débâcle nella vicenda Quirinale ha acuito tensioni che da mesi percorrono il corpo martoriato dell’ex balenottera azzurra, la quale — intanto — dimagrisce sempre di più nelle intenzioni elettorali degli italiani. L’impressione è allora che nessuno abbia la forza di fare davvero esplodere la resa dei conti finale, tantomeno Berlusconi.

Le fazioni che si contrappongono sono almeno tre, l’una contro l’altra armata, senza possibilità di alleanze fra loro. Ci sono i fittiani, una quarantina fra i 130 parlamentari, che sono i più critici. Di fronte a loro i fedelissimi dell’ex Cavaliere si sono lacerati: da una parte i fautori del dialogo a oltranza con Renzi, e cioè Verdini e Gianni Letta, con un pugno di sostenitori, dall’altra il cerchio magico delle Rossi, delle Pascale, dei Romani, dei Toti. Con quest’ultimo gruppo anche le uniche due figure che mantengono un minimo di autonomia, Gasparri e Brunetta.



Il “Mattinale”, il bollettino del gruppo alla Camera redatto dallo staff di Brunetta, assicura che da oggi si volta pagina. Tutta colpa — si legge — della tracotanza di Renzi, delle 17 modifiche introdotte alla legge elettorale senza il consenso preventivo degli azzurri, che le hanno accettate convinti che il premio ci sarebbe stato sul Quirinale. 

Su questo si arriva a una commedia dell’assurdo degna di Ionesco: Toti ripete come un mantra che nel patto del Nazareno c’era la condivisione di una scelta per il Quirinale, la Boschi e tutti i renziani non si stancano di ripetere il contrario. E’ evidente che una delle due parti mente, ma quale è difficile dirlo. E’ altrettanto evidente che una delle due parti ha perso, e su quale sia, invece, non ci sono dubbi. 

Da Palazzo Grazioli ci si affretta a sbandierare che d’ora in avanti ci sarà sostegno solo alle cose che piacciono, e non — ad esempio — al premio alla lista. Ma il margine di manovra per Berlusconi, che appare tristemente immobile al centro della scena, è davvero esiguo.

Sull’Italicum i voti di Forza Italia erano decisivi al Senato, e sono stati incassati prima della scelta del capo dello Stato. Adesso alla Camera Renzi ha già fatto sapere che non accetterà la riapertura della discussione. Si vota il testo di Palazzo Madama, punto e basta. I numeri della maggioranza di governo sono talmente ampi, vicini a quota 400, che se 40 della sinistra dem dovessero astenersi non sarebbe un problema.

Si tratta di un rapporto di forza così netto che neppure le riforme costituzionali, che saranno votate la prossima settimana a Montecitorio, corrono sostanziali pericoli. A quel punto il testo sarà cristallizzato, e i successivi tre voti necessari a completare il percorso di revisione costituzionale avverrebbero a colpi di maggioranza in entrambi i rami del parlamento. Il problema del quorum non esiste, tanto alla fine ci sarà il referendum, come non casualmente ha ricordato lo stesso Renzi. 

Forza Italia, dunque, è stata necessaria sin qui, adesso non serve più. Se si fa da parte, “meglio così”, per usare le parole della Boschi. Delle tre maggioranze a disposizione di Renzi, quella per le riforme è ormai inutile, al pari di quella che ha eletto Mattarella. Adesso basta la maggioranza vera, quella di governo. Ecco perché la priorità assoluta è stata quella di ricompattare il Pd. 

Troppo tardi Berlusconi si è accorto di essere stato “sedotto e abbandonato”. Ancora non ha metabolizzato lo smacco e non ha deciso il da farsi. L’unico su cui può contare è paradossalmente proprio se stesso. Tra un mese tornerà libero di muoversi, potrà girare l’Italia e riannodare le fila del suo partito moribondo, prima che sia troppo tardi. Una lucidata su una leadership appannata.

Per ora il “rompete le righe” non è scattato perché nessuno saprebbe dove andare. In pochissimi (si sussurra della Santanchè) avrebbero il coraggio di bussare alla porta di Salvini. Tutti, in fondo, sperano in un colpo di teatro del loro 78enne leader, ma non sarà facile. Bisognerebbe sfilare Alfano a Renzi, allora si che i giochi si riaprirebbero, perché al Senato Ncd è determinante. 

Se così non sarà, ed è lo scenario più probabile, non tutti saranno felici di attrezzarsi per una lunga traversata del deserto. Un deserto che si chiama opposizione.