Ieri, in serata, il ministro Maurizio Lupi ha annunciato per oggi le sue dimissioni da ministro delle Infrastrutture. Lupi — che non è indagato — è stato travolto dalle intercettazioni dell’inchiesta di Firenze sulle Grandi opere, per la quale è già finito in manette il superdirigente Ercole Incalza. Il ministro ha risposto ieri al question time alla Camera, ha negato di avere chiesto favori o regali, ma non c’è stato verso e la sua situazione, anche per la diffusione a mezzo stampa delle intercettazioni dell’inchiesta, è diventata un serio problema politico per Matteo Renzi e il suo governo. Lupi dunque se ne va, ma il nodo intercettazioni resta. Ne abbiamo parlato con Marco Boato, sociologo e senatore dei Verdi, deputato fino al 2006.



Lei firmò una serie di disegni di legge in materia di lotta al giustizialismo, note come bozze Boato, che si sono concretizzate nella legge 140 del 2003. Come giudica il caso Lupi?

Le “Bozze Boato”, a cui lei fa riferimento, erano le proposte di riforma costituzionale in materia di giustizia e di “sistema delle garanzie”, elaborate e presentate nell’ambito della Commissione D’Alema del 1997-98 per la riforma della seconda parte della Costituzione. La legge ordinaria 140 del 2003, da me presentata e di cui sono stato anche relatore, riguardava invece l’attuazione del riformato articolo 68 della Costituzione in materia di garanzie dei parlamentari, e quindi anche in materia di intercettazioni. “Senza l’autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento” può essere sottoposto “ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni” (combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 68). La legge dispone quindi anche in questa materia, vietando le intercettazioni dei parlamentari senza previa autorizzazione. Nel caso del ministro Lupi si è quindi trattato di intercettazioni indirette, effettuate su utenze telefoniche diverse dalle sue. Se l’autorità giudiziaria le volesse utilizzare contro di lui, dovrebbe chiedere l’autorizzazione al Parlamento.



Secondo lei, in questo come in altri casi, dove e quando avviene la fuga di notizie e perché?

Più che di una “fuga di notizie”, si è evidentemente trattato del deposito da parte della pubblica accusa del materiale probatorio a carico degli arrestati e degli indagati. Ma il ministro Lupi non è stato né arrestato (per cui ci vorrebbe comunque l’autorizzazione del Parlamento) né indagato. Quindi siamo di fronte soltanto all’eco mediatica di intercettazioni che riguardano gli arrestati e/o indagati, nelle quali o interloquisce anche il ministro Lupi, o di lui si parla a sua insaputa. Ma finora — almeno di ulteriori eventi giudiziari di cui non si ha allo stato notizia — non risulta alcuna ipotesi di reato nei suoi confronti.



Lupi si è dimesso. Come giudica il suo atto?

Sotto il profilo giudiziario non c’era alcun obbligo di dimissioni, ovviamente. Si trattava di valutare l’ipotesi di eventuali dimissioni esclusivamente sotto il profilo della “opportunità” politica. Ma questa scelta dipendeva esclusivamente dalla sua coscienza, sulla base di valutazioni etico-politiche e non giuridiche, e dai suoi rapporti col presidente del Consiglio, il quale tuttavia — a costituzione vigente — non ha alcun potere di revoca del mandato ministeriale, ma può esclusivamente esercitare una “moral suasion”.

 

Per Sabelli (Anm) “i magistrati sono stati virtualmente schiaffeggiati e i corrotti accarezzati” da questo governo. Secondo lei esiste un conflitto tra i pm e questo esecutivo?

Il conflitto tra magistratura (soprattutto per quanto riguarda taluni pm) e politica esiste ormai da decenni, e le mie proposte di riforma costituzionale del 1997-98 miravano anche ad un maggiore equilibrio istituzionale, che fosse in grado di superare tale ricorrente conflitto. Le dichiarazioni del presidente dell’Anm Sabelli mi sembrano francamente di una gravità inaudita: non si tratta di critiche argomentate, sempre legittime, ma di veri e propri insulti gratuiti. Ha fatto bene il presidente del Consiglio a replicare duramente al riguardo.

 

Per Edward Luttwak, “quando le intercettazioni finiscono sui giornali, la violazione del segreto d’ufficio ha l’unico effetto di proteggere i colpevoli. Distrugge l’autorità e la legittimità dei processi e delle Procure e quindi mina l’intera disciplina della giustizia in Italia”.

Il problema in sostanza c’è, ed è quello dell’uso indebito dei contenuti delle intercettazioni. Non credo si sia trattato di “violazione del segreto d’ufficio”, ma dipende dalla mancanza di una disciplina più rigorosa in materia di intercettazioni e del loro utilizzo, specialmente quando colpiscono persone estranee all’indagine giudiziaria, che avrebbero diritto ad una adeguata tutela. Non a caso l’uso viene fatto più sul piano politico e giornalistico che su quello giudiziario, ma è nell’ambito giudiziario che sono state rese note.

 

In che modo è possibile porre fine al fenomeno delle intercettazioni pubblicate sui giornali?

Da molti anni si discute, finora inutilmente, di una più rigorosa disciplina dell’uso delle intercettazioni e della loro pubblicità. Non si tratta di impedire questo pur importante strumento di indagine, ma, appunto, di arginarne l’uso giornalistico nelle fasi precedenti al dibattimento e di evitare che nella pubblicazione delle intercettazioni vengano coinvolte persone estranee alle ipotesi di reato contestate agli indagati o agli imputati.

 

Come giudica il ddl anticorruzione sul quale il governo sembra puntare molto?

Finora si è esitato molto in materia e l’esame parlamentare è andato assai a rilento. Sembra che ora vi sia finalmente una accelerazione nella Commissione giustizia del Senato, anche con la presentazione di un nuovo emendamento più “stringente” da parte del Governo. Il sistema della corruzione in Italia è davvero devastante e deve essere arginato e perseguito con assoluta determinazione, ovviamente sempre nel rispetto delle regole dello Stato di diritto.