Quanto è accaduto in questi giorni nel Governo, con le dimissioni forzate e mediaticamente determinate del ministro Maurizio Lupi, è l’esito di un importante mutamento istituzionale che affonda le sue radici nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e, in particolare, in quella delicata fase che ha portato all’avallo costituzionale della cosiddetta sfiducia individuale, prima sconosciuta. 



Tale istituto non è infatti previsto in Costituzione; lo ha introdotto nell’ordinamento la Corte Costituzionale tramite la sentenza che, nel 1996, ha chiuso definitivamente il caso Mancuso, anch’egli ministro della Repubblica, questa volta Guardasigilli, che aveva inviato gli ispettori alla Procura di Milano e che, proprio per questo, era stato sfiduciato dal Parlamento, un Parlamento ai tempi molto — forse troppo — sensibile alle ragioni della magistratura. A seguito di questa inedita procedura il capo del Governo, on. Dini, aveva assunto ad interim le funzioni del ministro senza che, tuttavia, vi fosse un passaggio formale né di dimissioni del ministro Mancuso né di revoca (inesistente in sede costituzionale) da parte del presidente della Repubblica. 



Sfidando Parlamento e magistratura, il ministro Mancuso aveva sollevato conflitto di attribuzioni davanti alla Corte e ne aveva ricevuto una risposta che ha portato ad ammettere che un ministro possa essere sfiduciato individualmente in nome della stabilità del Governo (da mantenere a tutti i costi) e contro il principio di collegialità dell’esecutivo, quel principio che aveva pressoché sempre comportato in passato le dimissioni dell’intero Governo nel caso in cui uno dei ministri fosse caduto in disgrazia parlamentare. La fiducia — si sosteneva — viene data al Governo nel suo complesso, al collegio spetta l’individuazione dell’indirizzo politico che tocca poi al presidente del Consiglio mantenere unitario, quel presidente che, non a caso, veniva definito come un semplice primus inter pares. Naturale pensare che la sanzione parlamentare ad uno dei ministri significasse, dunque, la fine del rapporto fiduciario con tutto il Governo.  



Oggi la situazione è profondamente mutata. La fine dei partiti di massa e la trasformazione degli stessi in macchine elettorali, in partiti personali nelle mani del leader in posizione dominante rispetto alla loro realtà associativa, la pressione mediatica e, a catena, dell’opinione pubblica, alleata della spettacolarizzazione della giustizia, hanno fatto sì che i singoli leader politici, quand’anche ministri della Repubblica, tendano a profilarsi in quanto tali e non in quanto parte di un organismo di governo. Ciò li rende più forti in un certo senso ma anche e simmetricamente assai più deboli, esposti ad ogni vento di sospetto, tanto che basta un orologio o un vestito di sartoria (neppure avallato da un banalissimo avviso di garanzia) a farli crollare sotto l’impeto dei media e dei nemici interni ed esterni, che calibrano con esattezza la crescita o la diminuzione del consenso a propri fini e secondo i propri anche nascosti interessi. 

Siamo, se così si può dire, ad un epilogo, al punto di minima di una parabola il cui futuro è oscuro. Una volta che gli avvisi di garanzia vengono letti come condanne, le intercettazioni come le prove e poi, ancora, in crescendo, i comportamenti come reati, si rischia il peggio, quel peggio che può arrivare sino alla diffusione di frasi dette in privato anche da persone al di sopra di ogni sospetto, col mero scopo di colpire gli avversari, politici o economici o personali che siano. 

Ora, un Governo in cui risulta smorzata la sua natura di organo collegiale e quindi congiuntamente responsabile di quanto si decide in seno al Consiglio (ma anche nell’ambito dei diversi dicasteri; non dimentichiamo che il presidente può sempre sospendere gli atti di un ministro per sottoporli al vaglio del collegio, se tale atto contrasta con l’indirizzo politico) finisce per essere una sorta di specchio della persona del premier, consegnando allo stesso i destini del Governo nel suo insieme, delle coalizioni che lo sostengono e dei singoli componenti. Niente di più lontano del disegno costituzionale, che affida al presidente del Consiglio solo la direzione dei lavori e non tutti i dettagli del lavoro stesso; un impianto, quello costituzionale, che vedeva nella responsabilità collegiale il più sicuro baluardo contro i venti del parlamentarismo ad oltranza, figlio primigenio del populismo. Era la collegialità dell’esecutivo ad essere concepita come strumento a difesa della stabilità del Governo, affinché lo stesso non fosse succube degli umori di un’assemblea parlamentare che può diventare facile preda dei media, quando i media sono solo assetati di sensazionalismo. 

Popolo sovrano, parlamento e governo: questa catena della legittimazione democratica regge finché reggono le mediazioni di soggetti della società civile (i partiti) capaci di rappresentare al meglio le tensioni e gli interessi più nobili presenti nel contesto sociale. Quando alle forme autentiche della rappresentanza politica si sostituisce una opinione pubblica ostaggio del giustizialismo più spinto, alimentato da un generale disprezzo per la politica stessa, tutto diventa spettacolo e volge al degrado. E, pertanto, se tutto è mediatico, bene ha fatto il ministro Lupi ad annunciare le dimissioni prima per televisione che in Parlamento. Così, almeno, risulta chiaro chi è diventato il vero sovrano.