I colloqui di pace tra le fazioni politiche rivali in Libia rischiano di collassare nel momento in cui i combattimenti per il controllo di Tripoli proseguono da due giorni. Il governo con sede a Tobruk, riconosciuto ufficialmente dall’Onu, ha condotto degli attacchi aerei contro gli aeroporti e un campo militare nella zona di Tripoli, la capitale controllata da un governo rivale legato alle milizie di Misurata. I colloqui di pace, in corso a Rabat in Marocco e sponsorizzati dall’inviato Onu Bernardino Leon, sono però continuati nonostante la situazione sul terreno si stia deteriorando. Ne abbiamo parlato con Carlo Jean, generale ed esperto di strategia militare.
Gli scontri in Libia vanno intensificandosi. Gli sforzi dell’Onu per un governo di unità nazionale sono illusori?
Il punto è che non esiste via d’uscita, l’unica possibilità è un governo di riconciliazione nazionale perché ben difficilmente una parte potrà vincere l’altra e pacificare il Paese da sola. Senza un accordo si rischia una guerra civile permanente.
Le milizie di Tobruk e Misurata sembra però che vogliano la guerra all’ultimo sangue. Quali speranze ci sono per il dialogo?
Il dialogo continua anche se ci sono combattimenti, è successo anche in Vietnam e prima ancora durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel caso della Libia poi si fronteggiano due coalizioni molto variegate al loro interno. In ciascuna di esse ci sono sia elementi più moderati favorevoli al dialogo sia quelli più radicali che vogliono combattere. Questi ultimi pensano di poter vincere, i primi sanno che non è possibile continuare così a lungo e che l’unica possibilità di trovare una soluzione è attraverso il negoziato.
L’Egitto sembrava in una prima fase voler rivestire una funzione di primo piano in Libia. Qual è in questo momento il ruolo del Cairo?
A Misurata, la cui milizia controlla Tripoli, sono molto forti i Fratelli musulmani. Dietro l’attacco in corso da parte di Tobruk c’è un’iniziativa dell’Egitto, il cui presidente Al-Sisi non può vedere il movimento islamista. Il Cairo non accetta un negoziato che implicherebbe un accordo con i Fratelli musulmani stessi. Proprio per questo l’Egitto, insieme a Emirati Arabi e Arabia Saudita, sostiene il governo di Tobruk. Turchia e Qatar, che sono più vicini agli islamisti, sostengono invece l’Operazione Alba delle milizie di Misurata. Può darsi però che le due coalizioni in lotta raggiungeranno una qualche soluzione, soprattutto se ci sarà uno stallo sul terreno.
L’Occidente ha delle alternative rispetto al tentativo di creare un governo di unità nazionale?
L’Occidente ha le sue responsabilità perché riconosce come legittimo il governo di Tobruk. In questo modo lo si autorizza indirettamente a impiegare la forza contro quanti lo contrastano. L’unico sistema per indurre le parti a negoziare è invece accettare quanto ha deciso la Corte suprema libica, che ha annullato le elezioni del 25 giugno su cui si basa il governo di Tobruk.
Perché ritiene che sia una soluzione positiva?
Affermando che entrambi i governi sono illegittimi li si mettono su un piano di parità. A quel punto l’Occidente potrebbe fare un’opera di mediazione che avrebbe una forza nel momento in cui fosse imposto un embargo alle esportazioni di petrolio e alle importazioni di viveri.
A chi finisce la maggior parte delle risorse economiche del Paese?
In Libia ci sono tre entità che hanno mantenuto una certa indipendenza. La prima è la Banca centrale libica, che ha circa 100 miliardi di dollari depositati all’estero. L’anno scorso è riuscita a recuperarne 25 miliardi, oltre ai proventi del petrolio, utilizzandoli per finanziare sia il governo di Tripoli sia quello di Tobruk. La Compagnia nazionale del petrolio versa su conti esteri della Banca centrale i proventi dell’oro nero che riesce a vendere. Infine c’è il Fondo di investimento nazionale che tiene i piedi in due staffe dando un po’ di soldi all’uno e un po’ altro.
(Pietro Vernizzi)