In linea di principio l’enunciazione di Matteo Renzi secondo cui ogni cittadino, politici compresi, va considerato innocente sino a sentenza definitiva non fa una grinza. In linea pratica questa linea finisce però per fare acqua da tutte le parti. 

Il caso Lupi fa deflagrare la contraddizione dei due pesi e delle due misure, ed espone il governo e il suo premier ad attacchi su tutti i fronti. Nell’intervista domenicale a Repubblica il presidente del Consiglio delinea una linea discutibile e sprezzante. Difende i suoi quattro sottosegretari indagati, spiegando che non chiederà loro le dimissioni in nome del garantismo. Eppure, al di là delle smentite ufficiali, a Lupi le dimissioni sono state chieste, e pure con fermezza ed energia.



Non regge la distinzione che qualche renziano fa tra accuse per atti avvenuti nell’esercizio delle funzioni di governo (Lupi), e quelle precedenti (i quattro sottosegretari). A smentirla il diverso trattamento fra il sindaco di Venezia Orsoni, di cui Renzi pretese le dimissioni, e il primo cittadino di Salerno, De Luca, cui è stato consentito di correre alle primarie per la Regione Campania, e pure di vincerle. Entrambi, Orsoni e De Luca, sono soggetti a procedimento giudiziario per atti compiuti durante il mandato da sindaco. 



Da questa lampante diversità di trattamento esce minata alla radice la credibilità del governo come campione della lotta alla corruzione. E da qui a diventare il bersaglio delle critiche delle opposizioni (e non solo) il passo è stato brevissimo. Movimento 5 Stelle, Lega, Sel e Fratelli d’Italia attaccano frontalmente il doppiopesismo del premier, che lascia perplessi anche molti dentro il Pd. Persino don Ciotti ha sparato a zero.

Per fortuna di Renzi la sua opposizione interna è frantumata al punto da condannare se stessa all’irrilevanza. Lo spettacolo dato dall’assemblea delle varie anime della minoranza Pd è stato sconfortante. Sul banco degli imputati è finito più D’Alema che il premier-segretario, che può quindi dormire sonni tranquilli e prendersi la soddisfazione di definire l’ex premier diessino come “vecchia gloria del wrestling”. In più, Renzi può permettersi anche di fare la voce grossa, ricordando ad amici e avversari che lui ha stravinto, tanto alle primarie quanto alle europee. E chi non ci sta, può accomodarsi fuori, tanto la prossima volta si voterà con l’Italicum e per chi tenterà di contrastare dall’esterno il listone della balena rosa non ci sarà scampo. E dentro il partito toccherà a lui fare liste.



Certo, viene da chiedersi sino a quando questa egemonia potrà continuare indisturbata. La rottura è stata troppe volte annunciata e mai praticata. Se non è avvenuta su un terreno facilmente comprensibile come il lavoro (il Jobs Act e la forzatura sui decreti attuativi operata dal governo), diventa difficile immaginarla su temi complessi come la legge elettorale, o le riforme istituzionali. 

Non è difficile immaginare che Renzi andrà quindi avanti a tutta forza per assenza di ostacoli seri. Anzi, cercherà di accelerare proprio per evitare che aggregazioni a lui contrarie si coagulino. Nel contingente dovrà evitare di apparire troppo accentratore, e quindi riassegnare entro pochi giorni la poltrona lasciata libera da Maurizio Lupi. Se, al contrario, dovesse cedere alla tentazione di tenerla  per sé per l’Expo, correrebbe il rischio di  trovarsi nell’occhio del ciclone di polemiche crescenti. 

Di sicuro lo iato fra parole dette e fatti praticati in termini di lotta alla corruzione apre una crepa in cui si insinua Nuovo Centrodestra per chiedere di non vedere ridimensionata la propria presenza nell’esecutivo, dal momento che Lupi — spiegano — si è dimesso spontaneamente, e non perché raggiunto da un avviso di garanzia. In linea teorica il ragionamento è consequenziale alle parole di Renzi e non fa una grinza. Così la sostituzione diventa però un grattacapo serio, e i centristi invocano l’attribuzione di un ministero di peso, anche se diverso dalle Infrastrutture, con una preferenza per l’Istruzione, che però Renzi non ha alcuna intenzione di regalare ad Alfano e ai suoi, anche se professano fedeltà assoluta al governo e assicurano di non voler chiedere le dimissioni dei sottosegretari indagati che sono esponenti del partito democratico in quattro casi su cinque.

Nel procedere Renzi dovrà poi fare i conti con il presidente Mattarella. Il capo dello Stato non pare affatto intenzionato a consentire forzature, e con ogni probabilità insisterà perché l’interim sia il più breve possibile. Lo stesso avverrà con i decreti legge, strumento più volte criticato anche in tempi recenti da quella Corte Costituzionale di cui Mattarella è stato esponente di spicco sino al giorno dell’elezione al Quirinale. 

Sinora Renzi non ha trovato ostacoli davanti a sé. Ma la situazione non potrà continuare all’infinito. Il doppiopesismo insito nel suo modo di lottare contro la corruzione potrebbe alla lunga costituire una mina insidiosa per l’azione di governo.