La vicenda del sindaco di Napoli Luigi De Magistris dimostra sempre più come la politica, a partire dagli anni novanta, si sia messa sempre più nelle mani della magistratura.
Con la legge n. 55 del 1990 si è introdotto un procedimento che prevedeva il progressivo allontanamento dalle cariche pubbliche locali se sottoposti a procedimenti penali o a misure di prevenzione connessi a reati di stampo mafioso. Poi, in relazione a situazioni penalmente rilevanti derivanti da condanne per delitti di particolare gravità (oltre a misure preventive connesse, per lo più, a delitti di stampo mafioso), la legge n. 16 del 1992 ha disposto l’incandidabilità alle cariche politiche regionali e locali e, più in generale, l’impossibilità di ricoprire le cariche stesse.
Così, a seconda delle situazioni, dalle decisioni dei giudici scaturiscono la sospensione dalla carica, la nullità dell’elezione o della nomina, la revoca dell’atto di nomina o di convalida dell’elezione, ovvero ancora la decadenza di diritto nel caso di sentenze definitive emesse nei confronti di coloro i quali fossero già titolari della carica.
Infine, con il decreto legislativo n. 235/2012 (cosiddetta legge Severino) la predetta disciplina sulle cariche locali e regionali è stata aggiornata ed estesa, pur con specifiche peculiarità, anche ai componenti del Governo e ai membri del Parlamento nazionale e di quello europeo.
Insomma, si è introdotta una disciplina molto articolata, e pure per alcuni aspetti imprecisa e contraddittoria, che incide direttamente sul rapporto tra la collettività rappresentata e gli organi democraticamente selezionati. Volendo proteggere le funzioni rappresentative di livello locale, regionale e nazionale dalle infiltrazioni criminali, si sono previsti meccanismi che finiscono per subordinare automaticamente la titolarità delle cariche elettive al determinarsi delle decisioni giudiziarie di rilievo penale.
Tutto il contrario di quanto statuito dai costituenti: essi hanno riservato alle sole Camere il giudizio non solo sui titoli di ammissioni dei parlamentari, ma anche “sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità” (articolo 66); e, nell’originaria versione dell’articolo 68, comma 2, avevano subordinato la sottoposizione dei parlamentari alla giurisdizione penale e la stessa efficacia del giudicato penale relativo ai parlamentari alla volontà di questi ultimi. Ma con le leggi intervenute prima a livello locale e poi — soprattutto — con la modifica costituzionale del 1993 che ha delimitato fortemente le garanzie dei parlamentari, si è innescato un processo in senso inverso.
Certo, anche la Corte costituzionale ha riconosciuto che queste misure legislative incidono sugli organi elettivi, e dunque interferiscono sulla formazione della rappresentanza politica; anzi, ha detto che “devono essere sottoposte a un controllo particolarmente stringente”, perché non ci troviamo davanti ad uno spazio giuridicamente vuoto, ma al contrario, siamo in presenza di disposizioni costituzionali che garantiscono espressamente l’elettorato passivo dei cittadini. Si tratta esattamente dell’articolo 51 della Costituzione, che va letto alla luce dei principi posti nell’art. 1(principio democratico), nell’art. 2 (diritti inviolabili), e nell’art. 3 (principio di eguaglianza) della medesima Costituzione.
Dall’altra parte, però, la stessa Corte ha riconosciuto la sussistenza di esigenze costituzionalmente rilevanti — seppure non scritte nella Costituzione — e che sono divenute sempre più stringenti: soprattutto, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi dalla delinquenza mafiosa o da gravi forme di pericolosità sociale che possano inquinare il corretto funzionamento della rappresentanza politica.
In questo difficile equilibrio, come sempre soggetto al flessibile e discrezionale giudizio di ragionevolezza rimesso, in ultima analisi, alla stessa Corte costituzionale, le regole del diritto si dimostrano talora incapaci di dirimere le controversie: ci si chiede, allora, se il sindacato giurisdizionale sulla legittimità della “sospensione” dalla carica, disposta in base alla predetta normativa, rientri tra le materie che sono oggetto del contenzioso elettorale di competenza del giudice ordinario, ovvero tra le cause di “ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità”.
E’ possibile che tale competenza non spetti al giudice amministrativo, anche perché la recente disciplina del processo amministrativo ha ribadito che la giurisdizione amministrativa concerne soltanto le controversie aventi per oggetto le operazioni elettorali. Pertanto, è stato presentato un ricorso in Cassazione, su cui il Procuratore generale si è già espresso favorevolmente, per annullare la sospensione pronunciata dal Tar — e confermata peraltro anche dal Consiglio di Stato — nei riguardi della sospensione del sindaco di Napoli dalla carica che era stata disposta dal prefetto.
Tra l’altro, il Tar aveva anche sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina legislativa con riferimento anche alla retroattività della disciplina interdittiva, così proponendo un dilemma già sollevato a proposito del caso Berlusconi. E’ possibile che la pronuncia della Cassazione sia favorevole al ricorrente, e che dunque spetti al giudice ordinario — cui peraltro lo stesso sindaco si era già premunito di rivolgersi — decidere sulla questione.
Nel frattempo, la sospensione della sospensione, come in un calembour davvero degno di questo nome, potrebbe venir meno, sicché nel sovrapporsi dei giudizi — cautelare, sulla giurisdizione, sul merito, di costituzionalità della legge — si finisce per delegittimare chi si trova, in qualità di rappresentante eletto, ad essere allo stesso tempo protagonista e vittima della vicenda.
Mentre la giustizia si attarda su chi deve decidere su un provvedimento formalmente temporaneo — la “sospensione” dalla carica elettiva — che, in verità, può trasformarsi nella pietra tombale per la carriera politica dell’interessato, la politica continua nel suo decadimento; e nulla esclude che in futuro anche le controversie interne alle formazioni politiche sulla designazione dei candidati finiscano sempre sul tavolo dei magistrati.
La condizione di pericolosa liquidità che attanaglia i partiti potrebbe mettere così i magistrati nella condizione non solo di avere la parola ultima sulla titolarità delle cariche elettive, ma anche di stabilire, in via preventiva, chi sarà sottoposto al voto popolare. Insomma, la bilancia si unirà alla spada, e forse non sarà più bendata.