La recente vittoria di Vincenzo De Luca alle primarie del Pd campano per l’elezione a presidente della Regione riaccende i riflettori sulla legge Severino.
La questione concreta deriva dalla circostanza che la normativa in vigore prevede una concorrenza di misure, quali la sospensione e la decadenza dalle cariche elettive, da un lato, e la previsione dell’incandidabilità, dall’altro lato. La sospensione dalle cariche elettive è una misura anticipatoria della decadenza, per cui è prevista nel caso di sentenze di condanna “non definitive”; mentre l’incandidabilità, che comporta la cancellazione del nome dalle liste, si configura solo in relazione a condanne “definitive”. Il paradosso è, perciò, che una persona condannata solo in primo o in secondo grado, con sentenza conforme, è candidabile, ma — se è eletto — è soggetto a sospensione.
Queste disposizioni sono già al vaglio della Corte costituzionale sotto il profilo della violazione del principio d’irretroattività della legge, ma la questione della contraddittorietà logica non può sfuggire; d’altra parte, nessuno — neppure la legge Severino — si sente disponibile ad affermare che si possa limitare la candidabilità di un cittadino con una sentenza di condanna non definitiva.
La questione è particolarmente intricata, perché la disciplina del 2012 ha aggravato il peso di queste misure, contemplando un ampliamento delle fattispecie, inedite sino a quel momento, ad esempio includendo il reato di “abuso di ufficio” (art. 323 c.p.) che presenta una criticità penale per una certa atipicità della fattispecie, rivestendo questa figura un carattere di norma di chiusura nel sistema di tutela della pubblica amministrazione. Fosse vigente la pregressa formulazione, non sarebbe possibile la sospensione di De Luca nel caso di elezione alla carica di presidente della Regione Campania.
Perché non è accettabile una limitazione della candidabilità dei cittadini in assenza di una sentenza definitiva? Perché sarebbe una compressione totale del diritto costituzionale di accesso alle cariche pubbliche (art. 51 Cost.) senza la certezza giudiziaria della condanna. La questione originariamente si era posta nel contesto della lotta alla mafia e solo successivamente è stata utilizzata in una prospettiva di lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione.
Di conseguenza, la situazione paradossale di un cittadino che è candidabile, ma che – se eletto – non può mantenere la carica, in pendenza di una condanna penale non definitiva è dovuta alla volontà di salvaguardare l’integrità delle posizioni amministrative; persino per le cariche politiche nazionali valgono regole leggermente diverse e più benevole.
Il bilanciamento tra il diritto costituzionale alle cariche pubbliche e la salvaguardia dell’imparzialità e del buona andamento delle amministrazioni (art. 97 Cost.) non appare ben riuscito. Di qui la questione di una revisione della legge Severino, avanzata anche in modo autorevole da membri della Corte costituzionale, ma che il ministro Elena Boschi ha apertamente smentito proprio dopo le primarie campane.
Non è possibile allo stato sapere se questa dichiarazione sarà mantenuta dopo l’eventuale elezione di De Luca.
Il Pd sembra attendista e, qualora decidesse di mantenere la disciplina legislativa in vigore e De Luca risultasse eletto, la situazione potrebbe portare alla paralisi una Regione importante come la Campania e menomare i diritti elettorali dei cittadini che hanno partecipato, sia votando a favore, sia non votando a favore di De Luca.
A questo punto un altro interrogativo. Il diritto di accesso alle cariche e la salvaguardia della pubblica amministrazione, entrambi con un chiaro fondamento costituzionale, stanno sullo stesso piano?
La risposta è no. Il diritto dei cittadini ha o dovrebbe avere una prevalenza netta sulla salvaguardia della pubblica amministrazione, e ciò per molti motivi giuridico-costituzionali che il buon senso lascia già intuire.
Se è così, vi sono due vie che si possono seguire: la prima coerente e leale, anche se espone il sistema elettorale a una vulnerabilità inevitabile che può essere scongiurata solo dalla scelta dei cittadini elettori, e cioè l’abrogazione della fattispecie della sospensione in pendenza di una condanna non definitiva, allineando “incandidabilità” e “impossibilità di ricoprire le cariche”; la seconda, invece, meno coerente e più ipocrita, procedendo con una legge ad personam per il caso De Luca, magari limitandosi ad escludere la fattispecie dell’abuso d’ufficio dai casi di sospensione (e di impossibilità di ricoprire le cariche). In fondo si tratterebbe di ripristinare la disciplina già in vigore in precedenza.
Vi è poi una terza via, che ci auguriamo ci sia risparmiata dalla classe politica, ed è quella di assistere a un calvario giudiziario (compreso un processo costituzionale), cui De Luca sembra comunque intenzionato a sottoporsi.
Il problema non è De Luca, anche se non va sottovalutata la sofferenza di ogni cittadino della Repubblica, ma i danni che sarebbero inferti alla nostra già malandata democrazia.