Più che una celebrazione di antichi fasti democristiani, la prima visita del nuovo, cattolico e democratico presidente della Repubblica Sergio Mattarella al pontefice Francesco deve far riflettere sulla storia dei nostri ultimi quindici anni, ovvero il periodo che ha visto al Quirinale susseguirsi una serie di capi dello Stato “laici”, di cui l’ultimo — quello per intenderci dei due mandati — di chiare radici personali comuniste.



Almeno sul piano della storia politica italiana di medio periodo, la persistente assenza di un esponente cattolico dalla presidenza della nazione — mai in precedenza così temporalmente lunga — può in qualche modo collegarsi anche alla fine della prima Repubblica, e proprio all’eclissi della lunga stagione di governo democristiana, che fu per quasi cinquant’anni espressione della cosiddetta “democrazia bloccata” contestuale al percorso della Guerra fredda.



Se, infatti, i riflessi della fine dell’Unione Sovietica in Italia hanno, alla lunga, agevolato la scelta di un presidente “rosso” come Napolitano, per quanto espressione di un comunismo “moderato”, migliorista, ci sarebbe piuttosto da porsi delle domande circa le ragioni profonde di quella “storia interrotta”, cioè la fine di una tradizione cattolica di responsabilità istituzionale propria della prima stagione repubblicana. Dopo la controversa presidenza Cossiga, alla fine degli anni Ottanta una generazione di politici democristiani sarebbe stata pronta anagraficamente — e probabilmente anche per esperienze maturate — a continuare nel solco dei Segni, Gronchi, Leone, ecc. Alcuni potevano anche aver acquisito il cosiddetto “physique du rôle” dello statista (si pensi su tutti a Giulio Andreotti, ma poi per lui ci fu il processo per mafia), alcuni ci provarono sino all’ultimo sul filo delle maggioranze parlamentari, come Arnaldo Forlani. 



Il file rouge, invece, che con Tangentopoli si interruppe fu anche rappresentato da quel tradizionale — e in taluni casi persino sovra partitico — sentimento di fiducia istituzionale verso quegli uomini che si potevano ancora considerare “figli” del movimento cattolico italiano, e che affondavano le ragioni del loro consenso personale in una lunga vicenda di legittimazione generazionale proprio nel quadro della dottrina sociale della Chiesa; una storia che tra il 1974 (divorzio) e il 1981 (aborto) aveva pure subito già scossoni notevoli. Ma a derubricare agli occhi dell’opinione pubblica nazionalpopolare tutta una classe dirigente cattolica dal livello istituzionale non fu allora tanto la questione etica — propria dell’agenda del Vaticano e della Chiesa italiana (che semmai si può considerare come spia del progressivo scollamento dell’elettorato cattolico dalle indicazioni ecclesiastiche); fu invece la questione morale, fondata su un’inedita spettacolarizzazione della giustizia applicata al mondo politico, che si abbatté allora come una mannaia sulla classe dirigente italiana, in particolare di governo, e quindi anche su quell’ultima Dc (si pensi, ad esempio, alla percezione collettiva del Caf: il patto Craxi-Andreotti-Forlani).

Se proprio le “picconate” di un presidente della Repubblica democristiano come Francesco Cossiga — nella prima parte di mandato oltremodo silente, e poi letteralmente “esploso” come fenomeno mediatico proprio in concomitanza con le inchieste dell’allora magistrato Di Pietro — contribuirono alla crescita esponenziale di un desiderio collettivo di “nuova politica”, e soprattutto di nuovi politici, non ci si poteva poi realisticamente aspettare una prosecuzione della leadership proprio di quella classe dirigente che in un certo senso si andava auto dissolvendosi nella bagarre di “Mani pulite”.

Tutta la storia successiva a quel delicato passaggio, ovvero la stagione “berlusconiana” degli anni Novanta e Duemila come oggi la si suole indicare, da una parte ha visto aprirsi (come detto) la possibilità di attingere ai ruoli apicali delle istituzioni repubblicane alla parte ormai ex-comunista, dall’altra è stata una lunga e faticosa rincorsa ad una legittimazione della nuova leadership “azzurra” di Forza Italia e alleati — sull’onda di una indubbia fortuna elettorale dello stesso Berlusconi —, con però persistenti difficoltà nel trovare accoglimento presso l’establishment politico-culturale italiano, che in prevalenza ha continuato a considerarla un corpo estraneo – così come il sempiterno “conflitto di interesse” collegato al fondatore della Fininvest emblematicamente rappresenta. 

Dall’altra parte, quella stagione “interrotta” ha fatto improvvisamente uscire di scena una intera classe politica cattolica, la quale attraverso la persistenza di una cultura cattolico democratica da un lato, e il nuovo profilo attivista di alcuni movimenti ecclesiali postsessantottini dall’altro, ha continuato parzialmente a far sentire la sua voce con alcuni suoi nuovi protagonisti, ritrovandosi però oramai dispersa nelle varie formazioni partitiche della seconda Repubblica, una volta superato il principio dell’unità politica dei cattolici italiani.

Inoltre, il deficit di profilo istituzionale patito — a torto o a ragione — dal centrodestra per eredità antiche (la ricerca di legittimazione della destra postfascista) e nuove (l’appeal antiistituzionale del medesimo Berlusconi, che pure gli ha lungamente favorito quel consenso nelle urne che era figlio diretto dell’antipolitica), se da una parte gli ha impedito (tranne qualche sporadico caso) l’accesso alle cariche istituzionali, dall’altra a maggior ragione ha finito per allontanare dalle stesse tutto quel mondo moderato cattolico che da sempre ha rappresentato una parte importante del partito democristiano, e che in esso ha comunque faticato a trovare effettivo spazio di manovra. 

Tutto ciò ha aperto una nuova epoca di “responsabilità civile”, dove la legittimazione di un profilo istituzionale — compreso il più alto, quello presidenziale — ha attinto ad una diversa tavola di valori, prevalentemente extrapartitici, ma soprattutto lontani da quel soggetto efficacemente definito da Agostino Giovagnoli come il “partito italiano”, che avevo sino ad allora governato il Paese.

Oggi un presidente della Repubblica che proviene proprio dalla storia del partito di De Gasperi e dall’Azione Cattolica — prossimo, in particolare, alla corrente cattolico-democratica che nella Dc ha sempre guardato più a sinistra —, e che è stato scelto dalla leadership di quel Partito democratico il quale si intende come la legittima fusione di quella parte cattolica e della parte riformista postcomunista, incontra il Papa del rinnovamento, quello che da subito è stato considerato un riformatore della Chiesa (e fors’anche di una parte di società). E mai, come in questo caso, i luoghi comuni paiono sprecarsi, sul ritorno della “Balena Bianca”.

Ma, come detto, i tempi sembrano oggi davvero diversi, persino al di là dei profili biografici dei due uomini. Papa Francesco, in ottica conciliare, parla di un “sano pluralismo” capace di evitare la strumentalizzazione dei fondamentalismi religiosi, ma al tempo stesso in grado di non «… confinare l’autentico spirito religioso nella sola intimità della coscienza», anzi considerarlo utile alla «costruzione della società»; il pontefice parla, inoltre, di accoglienza dei migranti, di ambiente, di disoccupazione.

Mattarella concorda, e rassicura il Pontefice sulle intenzioni e sull’impegno dell’Italia, e l’eredità di Bachelet sembra comunque intravedersi nel suo richiamo esplicito «alle tante Encicliche sul lavoro, la pace, lo sviluppo, la dignità umana. Un magistero alto confermato dagli atti e dall’insegnamento del suo Pontificato, che sentiamo particolarmente vicino».

In questa valutazione certo si può intravedere il “vecchio democristiano”, e soprattutto l’uomo di cultura (e fede) cattolica. Bergoglio e Mattarella hanno tante somiglianze, anche e soprattutto mediatiche, questo sì: il richiamo alla sobrietà, lo spirito di pulizia istituzionale, il senso della solidarietà, probabilmente anche il convincimento dell’odierno ruolo strategico del principio di sussidiarietà tra le istituzioni.

Ma conviene non sovrapporre all’immagine di questo incontro la patinatura di una foto in bianco e nero, anche se le età anagrafiche dei due — diciamolo con rispetto — lo potrebbe quasi agevolare. Troppo diversa è oggi la società italiana da quella in cui al cattolicissimo De Gasperi fu addirittura negato il ricevimento da papa Pio XII, perché reo di non aver voluto accogliere un suo suggerimento politico verso destra; ma anche solo da quella che ancora con la Dc al governo vide la prima parte del pontificato di Giovanni Paolo II.

Semmai, sarebbe da chiedersi se oggi — una volta superata la fase di “rigetto” di quell’esperienza politica che, al di là persino di Tangentopoli, fu figlia di una spontanea e prevedibile reazione a un (troppo lungo?) dominio politico — quest’incontro tra due leader “cattolici” non possa rappresentare l’occasione per ritrovare una tavola di valori cristiani che pare comunque saldamente legata all’identità del nostro Paese.