“Uomini e donne come noi, cercavano la felicità” ha detto di loro papa Francesco. Nella notte tra sabato e domenica si è compiuta la più grave tragedia nella storia dell’immigrazione mediterranea, con il naufragio in acque libiche di un peschereccio nel quale erano imbarcate, stando al racconto di un superstite, 950 persone. Solo 28 i sopravvissuti. “Dobbiamo metterci la mano sulla coscienza e domandarci perché abbiamo frustrato la felicità dei nostri fratelli” — dice monsignor Silvano Maria Tomasi, nunzio apostolico e osservatore permanente per la Santa Sede alle Nazioni Unite. 



Che cosa intende, monsignor Tomasi?
Partono fiduciosi questi richiedenti asilo e poi la disperazione li spinge a rischiare la vita o persino a combattersi tra loro. Hanno diritto ad una vita degna, ma le varie dittature da cui provengono non lasciano spazio alle loro legittime aspirazioni. I Paesi sviluppati poi non esitano ad esportare armi ed intrattenere bune relazioni con quei Governi, che opprimono i loro popoli e li forzano a cercare altrove sopravvivenza.



Per Renzi non ha senso dire che con Mare Nostrum il disastro non sarebbe accaduto. Il “vero problema” è un altro — ha detto il premier — e cioè quello “del nuovo schiavismo”, dei “trafficanti di uomini”. Come commenta?
I trafficanti di carne umana non esitano a strumentalizzare i migranti per i loro loschi guadagni. Ma trovano connivenza. Si mescolano interessi politici, economici, di espansione religiosa, di ricatto. In un certo senso i migranti sono come delle pedine mosse da una mano nascosta, povere vittime di piani più ampi, vittime che meritano di essere accolte ed aiutate a capire la loro situazione e i valori fondamentali delle società che li accolgono e che permettono una convivenza pacifica.



Intanto l’Europa sembra tacere.
Il Mediterraneo non segna solo i confini dell’Italia, ma dell’Europa. Davanti al ripetersi di perdite di vite umane, l’Europa non può lavarsene le mani. La solidarietà non è solo una virtù, ma anche un dovere politico per l’Europa davanti ai richiedenti asilo che bussano alla sua porta. La globalizzazione non è solo fatta di interessi nazionali, ma anche di responsabilità verso l’unica famiglia umana a cui tutti apparteniamo.

Secondo lei, di fronte ad appelli all’Europa più volte rinnovati e nella sostanza disattesi, cosa deve fare l’Italia, oltre a chiedere di non essere lasciata sola?
La costruzione dell’Europa non può basarsi solo sull’economia come unico criterio di decisioni politiche. Sarebbe una visione miope che porta al fallimento dell’esperimento europeo. L’idealità che lega i popoli dell’Europa è la solidarietà e il senso di libertà che porta a difendere questo diritto contro gli schiavisti moderni. L’appello del Governo italiano mi pare un richiamo ai valori fondanti l’Unione Europea non solo è legittimo, ma è un richiamo al dovere per tutti gli europei. Nel frattempo, la lezione di umanità che l’Italia sta dando con l’accoglienza dei richiedenti asilo dovrà continuare nella speranza che divenga contagiosa anche per gli altri Paesi dell’Europa. La priorità è di salvare vite.

Salvini, della Lega, dice che occorre un blocco navale. E’ una proposta plausibile? 

Nella storia antica la muraglia cinese o il vallo di Adriano in Inghilterra non hanno fermato l’arrivo di popolazioni indesiderate come oggi non le fermano le barriere di filo spinato ai confini tra Messico e Stati Uniti e tra Bulgaria e Turchia. Occorre operare alla radice del problema e non punire le vittime. 

Quindi?
Non si devono appoggiare governi che violano impunemente i diritti umani dei loro cittadini. Si può e si deve invece facilitare lo scambio di tecnologie verso i Paesi meno sviluppati, aprire le porte al commercio, l’accesso ai medicinali necessari a prezzi ragionevoli, e così via. Certo, l’Europa non può accogliere tutti i poveri e perseguitati del mondo, ma può dare un esempio di accoglienza e di relazioni internazionali più giuste.

In un modo o nell’altro si arriva al problema della Libia. Da mesi c’è un’emergenza libica, da quando è arrivato il califfato, e l’Italia è il primo Stato chiamato in causa; eppure siamo al punto di partenza. Perché?
Gli interventi precipitati in Libia hanno creato una destabilizzazione disastrosa. I migranti che si trovano in questo momento di crisi in Libia vengono manipolati da varie forze soprattutto non-statali e senza molti scrupoli. Si pone quindi il problema per la comunità internazionale di come gestire i migranti in queste situazioni di crisi e impossibilitati di ritornare al loro Paese. Se la priorità è di salvare vite, questi migranti non possono essere lasciati nelle mani dei loro aguzzini. Tuttavia la volontà politica di risolvere la crisi medio-orientale, che ha conseguenze pratiche in varie regioni anche lontane geograficamente, non mi pare molto evidente. La complessità della situazione è enorme perché vi giocano potenze globali, competitività religiosa tra sunniti e sciiti, conflitto tra governi ed opposizioni. La situazione non cambierà finché la volontà politica non si deciderà a metter fine alla violenza.

D’accordo, ma chi dovrebbe agire in Libia? l’Italia secondo lei potrebbe assumere un’iniziativa autonoma?
L’esperienza anche recente mostra che interventi unilaterali creano più problemi di quanti ne risolvono. L’azione della comunità internazionale dovrà, se ritenuta la via necessaria per risolvere i flussi continui verso l’Italia, essere fatta attraverso i meccanismi che si è data come l’Assemblea e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Le migrazioni non sono un fenomeno isolato, ma parte dei conflitti in corso e delle crisi interne alle società attorno al Mediterraneo. E queste dovranno essere parte integrante di ogni eventuale proposta di soluzione.

Renzi ha detto che il governo sta lavorando perché il consiglio europeo “si svolga entro la settimana e produca risultanze pratiche”. Lei cosa auspica?
Non sarà facile individuare misure pratiche che non si limitino al solito discorso di maggior controllo. Mi auguro che si legga il fenomeno migrazioni nel suo contesto socio-politico più ampio e che si opti per un negoziato inclusivo tra Paesi di partenza e destinazione.

(Federico Ferraù)