Sulla legge elettorale si sta giocando una partita che riguarda l’essenza stessa del Partito democratico. La questione nasce dall’ascesa di Renzi alla segreteria, dicembre 2013, anche se il passo di non ritorno è arrivato la settimana scorsa, quando la “minoranza interna” ha abbandonato la direzione in cui si è deciso che il testo dell’Italicum è immodificabile. 



Il fenomeno costituzionale che si era creato, durato sinora, è quello inedito di due élites politiche sulla medesima base elettorale: il primo formato dagli ex Pci e da una parte di ex Dc che insieme hanno condotto negli anni la battaglia contro Berlusconi; il secondo gruppo presentatosi come una frattura generazionale e senza un retroterra politico preciso, non erede della tradizione comunista né di quella della sinistra Dc.



Da un lato, abbiamo una certa filosofia riformista e un’esperienza di partito risalente agli anni 70; dall’altro, invece, c’è una filosofia più rivoluzionaria: cambiare tutto, per fare ripartire l’Italia, e un’immagine politica nuova. 

Ora, il vecchio gruppo resiste con Bersani sino alle elezioni del febbraio del 2013, ma i risultati sono deludenti: alle elezioni del 2013 il primo partito è il M5S di Grillo e il vantaggio sulla coalizione del Cavaliere è di meno di 125mila voti. L’impasse nelle elezioni del presidente della Repubblica e la formazione di un governo (Letta) con larghe intese che include Forza Italia sono un disastro per l’immagine del gruppo dirigente del Pd: disorientato, senza idee e oltremodo lento.



I passaggi successivi sono noti: Renzi vince le primarie, dicembre 2013, e in meno di tre mesi è a Palazzo Chigi. Parole d’ordine: rottamazione e riduzione della classe politica e delle relative sedi di rappresentanza, legge elettorale fortemente maggioritaria e personalizzata. 

E il Partito democratico?

Inizialmente, nel partito e nei gruppi parlamentari Renzi è palesemente ancora minoranza, ma — secondo la nota regola del salto sul carro dei vincitori — la maggioranza diventa “minoranza interna”.

A un gruppo dirigente se ne sostituisce così un altro, completamente diverso; entrambi hanno come riferimento la medesima base, che resta ferma, perché attratta dal giovane dinamico e loquace leader e, soprattutto, perché la “minoranza interna” di fatto legittima tutte le operazioni che Renzi mette in campo, anche quando non è affatto d’accordo e lo sostiene “per disciplina di partito”.

Almeno così è stato sino all’altro giorno, quando si è alzata dalla direzione e ha abbandonato la riunione.

La vicenda del Pd si basa sulla condivisione di entrambi i gruppi dirigenti di un’idea di partito che non è quella del vecchio Pci o della Dc, ma di un gruppo oligarchico e autoreferenziale. Un’idea di partito senza territorio e senza più militanti, come ha mostrato anche il risultato delle elezioni in Emilia-Romagna, regione “rossa” per antonomasia.

Peraltro, Renzi ha progressivamente compiuto una conversione sull’elettorato di centrodestra, complice anche il “patto del Nazareno”. Sicché la distanza con la tradizione dell’Ulivo e del Pd è cresciuta e il successo delle Europee non giustifica la perdita d’identità da parte dell’elettorato di riferimento, che progressivamente si sente sempre più distante dal corso renziano. Di fronte a questa situazione, ci si chiede come si possano evolvere, allora, i rapporti interni al Pd. 

Renzi è ormai il padrone del marchio e alle prossime elezioni spazzerà via la minoranza interna; ma il problema è cosa farà l’elettorato del Pd, oggi quotato al 36 per cento. 

Se la minoranza interna accetterà di scomparire silenziosamente, “per disciplina di partito”, quasi certamente la maggioranza degli elettori voteranno in modo tradizionale, a meno che non nascano delle valide alternative. 

Se invece la minoranza interna consumerà la rottura, dotandosi di un’immagine seria, ad esempio, a difesa della democrazia, facendo saltare l’approvazione dell’Italicum, allora potrebbe sperare che una buona parte dell’elettorato Pd possa seguirla.

Si dirà che così si accentua la frammentazione politica, e questo è vero; ma non si potrà di certo dire che così s’interrompe la fattività di un buon governo.

In fondo Renzi ha fatto poco e con scarsi risultati; tant’è che nonostante il basso costo del barile, la svalutazione dell’euro e il Quantitative easing della Bce, l’Italia non riparte e la volta buona ancora non arriva. Non è solo colpa dei “gufi”.