Stavolta è suonata davvero la campana dell’ultimo giro. Se la minoranza interna al Partito democratico non sarà in grado di condizionare il percorso della legge elettorale verso l’approvazione definitiva, si condannerà all’irrilevanza, senza prove d’appello ulteriori.

Per la verità parlare di un’unica minoranza impegnata nel tentativo di frenare l’impeto del premier/segretario è lontano dalla realtà. E questo pone Renzi in posizione di ampio vantaggio. Il presidente del Consiglio è stato chiarissimo nell’intervista di Pasqua al Messaggero: “Io sono disponibile a mediare, sempre — ha spiegato — ma deve essere utile per il Paese, non per una corrente del partito. E soprattutto la mia impressione è che tornare indietro rispetto all’accordo di maggioranza di novembre farebbe scattare un bomba libero tutti”.



E’, questo del cedimento che aprirebbe una falla incontrollabile, un timore che fa capire che non ci sarà alcun margine di trattativa. Bersani, D’Alema, Fassina, Bindi, Civati, le mille anime dissonanti del fronte antirenziano, sono avvisati. A loro Renzi ha lanciato un guanto di sfida beffardo: “Se qualcuno pensa di utilizzare una parola drammatica come scissione perché non è d’accordo su un dettaglio, non è un problema mio. Se qualcuno vuole andarsene per gravi dissensi sulla linea politica, parliamone. Ma voglio vederli andare nelle feste dell’Unità a spiegare che qualcuno se ne va perché i collegi erano 100 anziché 90 o 110».



Margini di trattativa zero, quindi, spazio per i mediatori, Roberto Speranza in primis, ridotto al lumicino. Da giorni si parla di un contentino costituito dalla riapertura del dibattito sulla forma del futuro Senato, ma si tratta di un’eventualità poco credibile. Non solo vorrebbe dire azzerare nuovamente il percorso del testo del disegno di legge di riforma della Costituzione, pesa anche quanto accaduto sul Jobs Act, cioè le promesse non mantenute di correggere con un’interpretazione restrittiva nei decreti attuativi i punti più controversi della legge.

Le minoranze democratiche non possono nascondersi dietro un dito: di Renzi non si possono fidare, hanno solo la scelta fra andare allo scontro o piegarsi. In pura linea teorica i numeri ci sarebbero già nella commissione Affari costituzionali della Camera, dove 12 dei 23 commissari Pd (su 50 componenti) sono considerati dissidenti dalla linea ufficiale del partito. E’ un fronte troppo ampio per poter essere superato con sostituzioni d’imperio, come avvenuto con Corradino Mineo in Senato. E poi si tratta di nomi pesantissimi come Bersani, Bindi, Cuperlo e D’Attorre, il gotha della dissidenza. Sostituirli equivarrebbe a una dichiarazione di guerra, ma ottenerne il voto — anche solo in nome della disciplina di partito — sarà tutt’altro che facile.



In aula, però, i numeri sono dalla parte di Renzi, anche perché potrà contare sul supporto di Area Popolare e dei cespugli che sostengono il governo, oltre al potenziale soccorso di una pattuglia di azzurri. Ma un eventuale voto contrario di una trentina di dissidenti equivarrebbe a una scissione.

Se il colpo di mano di aprire una crepa nell’Italicum dovesse riuscire, invece, la partita per Renzi si complicherebbe, perché al Senato — dove il testo dovrebbe tornare — i numeri sono molto più difficili da governare e la pattuglia degli oppositori più folta, al punto da poter far traballare il governo, almeno sulla carta.

Sinora, però, le minoranze non hanno trovato il coraggio di saldarsi, e tantomeno di rompere. La sfida di Renzi le coglie in difficoltà e su un terreno sfavorevole. Una rottura su un tema caro alla sinistra come quello del lavoro sarebbe stato molto più facile da spiegare alla pubblica opinione, e il premier/segretario lo sa bene. Se daranno partita vinta al loro leader sanciranno la mutazione genetica del Pd da partito di sinistra a partito di centro, con velleità di trasformarsi in partito della nazione. Ne sono evidenti i contorni nelle parole dello stesso Renzi, laddove prende le distanze dal mondo delle coop coinvolto nelle ultime vicende di mazzette, definendo le cooperative “forse il fiore all’occhiello di qualche progenitore del Pd, non nostro”. Una pietra tombale su un’intera epoca di collateralismo sociale ed economico.

E’ questo oggi lo scenario che appare largamente più probabile.  Il coraggio — diceva don Abbondio nei Promessi Sposi — se uno non ce l’ha, non se lo può dare. E sinora alle minoranze democratiche il coraggio è mancato del tutto, quasi incredule del ritmo a tappe forzate e della direzione che Renzi ha imposto alla loro “ditta”. Rompere vuol dire fare un salto nel vuoto, senza un leader, senza un progetto, senza un contenitore già pronti. Restare, però, vuol dire accettare di essere stati sconfitti e marginalizzati. E sparire la prossima volta che verranno composte le liste del Pd, qualunque sia la data delle prossime elezioni.