Continua a far discutere la sentenza della Consulta che ha sancito l’incostituzionalità del blocco delle integrazioni alle pensioni per adeguarle all’inflazione, blocco predisposto dal Governo Monti all’apice della crisi finanziaria e in un momento in cui lo spread era salito a livelli di guardia. Un provvedimento d’emergenza, che tuttavia — come spesso capita nel nostro Paese — era stato adottato nella forma di un provvedimento strutturale, a tutt’oggi ancora in vigore.
Dopo aver fatto discutere i giudici della Corte (6 a favore, 6 contro, secondo i rumors filtrati dal Palazzo), dopo aver provocato lo sconcerto della classe politica in generale e del Governo in particolare per le rilevanti conseguenze economiche, è ora il tempo della discussione nell’ambito dell’opinione pubblica, aperta ieri sul Corriere della Sera da Sabino Cassese e continuata oggi, con più ampio respiro, da Luigi Ferrarella. Mentre Cassese, da tecnico, ha messo in luce le possibili alternative che si sarebbero potute adottare per evitare di entrare in modo violento nelle scelte economiche compiute della politica, Ferrarella sposta il problema sul rapporto politica-giurisdizione, mettendo in luce temi noti e irrisolti, visto che tra l’interpretazione costituzionale (a cui si è appellata la Corte nella sua vis destruens) e la scelta governativa (legittimata secondo le regole della democrazia rappresentativa) il passo è breve e la distinzione tutt’altro che agevole.
Senza riandare ad un repêchage di temi già affrontati, una considerazione merita qualche spazio. Si può dire che, giustamente, il Governo ha lamentato di essere stato lasciato all’oscuro di quanto si andava addensando sulla sua testa e che rischia di farla cadere. Eppure, in un certo senso, questo è normale: in passato ci si è preoccupati delle frequentazioni un po’ troppo politiche di certi giudici costituzionali e ora mi pare che la cautela sia diventata una regola aurea dei rapporti tra i due massimi organi.
E, tuttavia, vi sono strumenti tecnici che potrebbero se non fondare almeno istituire canali di comunicazione che non inficino la necessaria indipendenza della Corte e dei suoi giudici. Si tratta di quegli strumenti che, nel processo costituzionale, servono a chiarire i fatti della causa ove questi siano rilevanti per la decisione; mi riferisco alle ordinanze istruttorie, la quali in passato (vedi ad esempio la sentenza 121 del 2006, non a caso in materia previdenziale) sono state utilizzate per una migliore comprensione dei contesti in cui le sentenza andavano poi ad inserirsi e ad influire.
E, ancora, il Governo non è senza voce nell’ambito del processo costituzionale; egli parla per bocca dell’Avvocatura dello Stato a difesa della legge contestata ma non sempre — va detto — tale difesa è corredata da tutte quelle informazioni che potrebbero sostenere le ragioni della costituzionalità del provvedimento, anche ricordando — sempre a mo’ di esempio — le analisi e le ricerche che la Camera dei Deputati predispone tramite il suo Servizio Studi (e un esempio interessante si rinviene proprio a proposito della sentenza in esame).
Se processo vi è, il processo costituzionale resta sempre tale, pur nell’anomalia che gli deriva dalla specificità dell’imputato — l’atto legislativo, politico per sua natura; e per la soluzione di tali controversie, come di tutte le controversie, un’attenta conoscenza dei fatti, che sorregge la corretta applicazione del diritto, non cessa di essere essenziale.