Alla fine ha avuto paura e ha frenato. Matteo Renzi è stato preso dal timore che le cose andassero male e ha cercato di separare l’esito delle elezioni regionali dalle sorti del governo. Poi probabilmente succederà come lo scorso anno, quando alla vigilia pronunciò la stessa frase, salvo poi costruire la propria legittimazione sul 40,8% a sorpresa che uscì dalle urne delle europee per il suo Pd.



Sarà di nuovo così se finirà 6-1 (Veneto al centrodestra a trazione leghista), o almeno 5-2 (Veneto più una fra Liguria e Campania), com’è il risultato di partenza. Ma in questo modo rischiano di essere dimenticati troppo in fretta gli errori compiuti e le polemiche che hanno reso fortemente a rischio questo passaggio elettorale per il premier e per la sua leadership, sul governo e sul partito.



Renzi non ha fatto nulla per evitare scelte sbagliate che si sono rivelate piombo nelle ali per il partito, già scosso dalle polemiche interne della sinistra sulle barricate sul Jobs Act, sulla scuola, sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. 

I primi errori sono stati quelli sulla scelta degli uomini. Non aver avuto il coraggio di stoppare tutto in Liguria dopo primarie che definire opache è un eufemismo (indaga la magistratura) ha fornito benzina e motivazioni a una spaccatura nella carne viva della sinistra. E se Raffaella Paita dovesse perdere, o — quantomeno — non avere la maggioranza in consiglio regionale, la sinistra di Pastorino, di Civati e di Cofferati avrebbe la prova della possibilità di poter essere determinante e diventerebbe aggregante verso chi sinora è stato a guardare, dentro il Pd, o ai suoi margini, da Fassina a Bersani, da Landini a Vendola.



A lungo termine però conseguenze non meno gravi potrebbe avere un’altra mancanza di coraggio, quella che Renzi ha dimostrato non fermando Vincenzo De Luca. Nessuno mette in discussione le capacità amministrative dell’ex sindaco di Salerno. La sua città assomiglia certamente più a Lugano che alla vicina Napoli. Ma una condanna per abuso d’ufficio, seppur solo in primo grado, non si può cancellare grazie al lavacro delle primarie, o di una vittoria nelle urne. Renzi aveva il dovere morale di dimostrare che la legge (Severino) è uguale per tutti, amici (De Luca) e nemici (Berlusconi). 

Ora è possibile che si troverà nella necessità di doverlo sospendere da presidente della Campania, e potrebbe persino accadere che il suo inevitabile inserimento nella lista degli “impresentabili”, stilata dall’antimafia a guida Bindi, pesi sul voto più altrove (a Genova, ad esempio, dove c’è più elettorato d’opinione), che a Napoli e dintorni, dove più forte è il voto clientelare e di gruppi sociali organizzati. Lo strascico sarà comunque pesantissimo in termine di credibilità del Pd sul piano della lotta alla criminalità dentro le istituzioni, lo stanno a dimostrare gli scomposti attacchi dei renziani alla Bindi. Attacchi che fingono di dimenticare che la lista degli impresentabili è frutto di criteri approvati praticamente all’unanimità, sui quali ben poco hanno pesato i dissapori interni al Pd.

Una scissione, o quantomeno una diaspora, all’indomani del voto sembra assai più di un’ipotesi, e forse Renzi in cuor suo se l’augura pure, per avere a disposizione un partito più coeso. Per recuperare la credibilità che esce appannata da questo voto il premier segretario punta su una nuova accelerazione del processo riformatore. Chiudere sulla scuola e mettere mano alla pubblica amministrazione sono i prossimi obiettivi. Poi la Rai e l’Europa, che sin qui ha riservato ben poche soddisfazioni. 

Rompendo da Trento il silenzio elettorale in maniera ben poco ortodossa, Renzi ha annunciato che da settembre l’Italia si farà sentire a Bruxelles contro la politica del rigore. Peccato che questo pressing sia in corso già da un anno, con risultati limitati (il quantitative easing lo ha inventato Draghi, non il Consiglio Europeo). E francamente non si vede per quale ragione Angela Merkel debba concedere nel prossimo autunno quella flessibilità negata nei fatti nei mesi scorsi all’intera area euro. 

Davanti a se l’ex sindaco di Firenze ha un’opposizione ridotta ai minimi termini, con i 5 Stelle in discreta salute elettorale, ma ininfluenti, e con il sorpasso probabile della Lega su Forza Italia. A suo giudizio Salvini è l’avversario ideale, il più facile da battere, perché troppo spostato a destra.

Le insidie maggiori sono quindi quelle che vengono dal fronte interno, da dentro il Pd, a patto che le minoranze interne escano dal loro stato di torpore e dal ruolo di eterni Amleto, incapaci di fare vera opposizione al premier. Se nelle pieghe di una vittoria si dovessero intravedere i punti deboli del renzismo, allora la vittoria alle regionali potrebbe trasformarsi in una vittoria di Pirro. Ma Renzi lo sa, e farà di tutto per evitare di offrire il destro ai suoi nemici interni.