L’unico dato certo è che servirebbe un cataclisma per evitare l’approvazione dell’Italicum. I numeri di cui Matteo Renzi dispone alla Camera sono tali che nemmeno una sessantina di dissidenti potrebbero vanificare il varo definitivo della nuova legge elettorale. Il vero problema è misurare il prezzo pagato per ottenere questo risultato, e quanto peserà nel prossimo futuro.



Naturale conseguenza dello strappo che la riforma del Porcellum ha prodotto nel Pd è la definizione se il dissenso rimarrà nell’alveo del partito, oppure no. Deborah Serracchiani si augura che la frattura si possa ricomporre, ma forse è la prima a non crederci. Se una pattuglia si producesse in una mini scissione difficilmente dai balconi di Palazzo Chigi scorrerebbero le lacrime, ma nessuno vuole spingere la minoranza fuori. Renzi intende cercare di evitare sino all’ultimo di caricarsi la responsabilità di espulsioni di massa, che produrrebbero un nugolo di martiri del renzismo.



Il vero nodo da sciogliere è capire se avranno il coraggio di andarsene i pezzi grossi della minoranza dem, che in larga parte coincide con la vecchia guardia bersaniana. E qui la questione si fa complessa. Gli oppositori di Renzi sembrano impauriti dall’eventualità di portare il loro dissenso sino alle estreme conseguenze. Rischia di dimostrarlo plasticamente anche il voto finale sull’Italicum: le varie anime del dissenso potrebbero dividersi fra tre differenti comportamenti, il voto contrario (pochissimi), l’astensione e l’uscita dall’aula.

Il primo atteggiamento, il voto contrario, è il più coraggioso, ma a parte Fassina, Civati e D’Attorre, la stragrande maggioranza tentenna. Il secondo e il terzo manifestano una debolezza intrinseca degli oppositori del premier-segretario, anche perché c’è pure chi ha già annunciato (come Ginefra) che voterà sì per disciplina di partito, pur essendo in disaccordo con il merito del provvedimento.



Sino a quando i suoi oppositori si dimostreranno tanto divisi e spaventati, Renzi potrà dormire sonni tranquilli. All’area dei malpancisti, del resto, manca anche un leader che sia in grado di coagulare sensibilità differenti e lontane fra di loro, e questo è un limite non da poco di questa opposizione interna. L’unico che potrebbe provarci, realisticamente, è Enrico Letta, tornato in campo dopo 15 mesi di silenzio che gli sono stati necessari per elaborare il lutto del colpo di palazzo messo in atto dal vincitore delle primarie del suo partito.

Letta è stato lucidissimo nel menare fendenti contro Renzi. Sull’Italicum lo ha accusato di comportarsi né più, né meno di Berlusconi, cioè di non accettare di scrivere le regole del gioco con l’opposizione, come il Cavaliere fece nel 2005 con il Porcellum. Se si tiene a mente l’accusa di Maurizio Landini sul Jobs Act, che Renzi era peggio di Berlusconi, ecco delineato un coacervo ampio che concorda sulla pericolosità di Renzi. 

Una galassia però difficile da coagulare, e che Letta fa mostra di non aver intenzione di guidare, almeno per ora. Ha annunciato le sue dimissioni dal Parlamento a settembre per dedicarsi all’insegnamento a Parigi. La capitale francese, però, è a sole due ore di volo da Roma, e settembre è ancora lontano. Da qui ad allora molte cose possono succedere.

Nel piccolo della vita del Pd c’è da definire a giorni il successore di Roberto Speranza nel ruolo di capogruppo alla Camera, questione più delicata di quanto non possa sembrare. Ci sono poi le elezioni regionali a fine maggio, con molte incognite sull’esito del voto, che dipenderà soprattutto dalla percentuale dei votanti. Più sarà bassa, più sarà facile per il Pd vincere alla maniera di Bonaccini in Emilia, con il 37% dei votanti. Se qualcosa dovesse andare storto (leggasi una regione persa a sorpresa fra Liguria e Marche, dove i democratici si sono divisi), allora anche Renzi potrebbe avere grattacapi. 

Nell’immediato il prossimo fronte sarà la riforma della scuola. Mentre alla Camera si è lavorato a tappe forzate anche di domenica per esaminarne il testo in commissione, Renzi veniva contestato dagli insegnanti alla festa dell’Unità di Bologna. E martedì lo sciopero generale della scuola costituirà il termometro del dissenso. In piazza ci saranno anche alcuni esponenti della sinistra dem, a cominciare da Fassina, e il cammino parlamentare del provvedimento non si preannuncia affatto agevole.

E’ evidente che il malcontento nei confronti dell’operato del governo stia lentamente crescendo, ma Renzi non intende cedere neppure di un millimetro, lo dice e lo ripete a ogni uscita pubblica. Prudenzialmente ha deciso però di far slittare di un mese, a dopo le regionali, l’esame della riforma costituzionale in Senato, dove la sua opposizione interna potrebbe riuscire a condizionarlo assai più che alla Camera. 

Ma se qualcosa dovesse andare storto (o, al contrario, arrivare dalle urne un clamoroso 7-0), allora la tentazione di precipitare il paese verso il voto sarebbe fortissima, e difficilmente il capo dello Stato avrebbe la forza di arginarla. 

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