Visto da Milano o Roma, Flavio Tosi “a doppia cifra” (11,9% nel Veneto) può essere giudicato uno sconfitto onorevole: perfino il vincitore di una propria scommessa personale. Una scommessa, magari da rilanciare subito come punto di riferimento per altri e meno consapevoli sconfitti del voto di domenica: a cominciare dalle spa, come le sparute e litigiose truppe di Ncd. Ma appena si entra allo’interno delle proverbiali mura di Verona, il profilo del super-sindaco appare assai meno forte e logoro in misura preoccupante.



In provincia Tosi non è andato oltre il 26,7%: oltre dieci punti in meno di Luca Zaia, confermato con uno strepitoso 50,1%. Ma il super-governatore ha battuto Tosi anche nel suo comune, di un’incollatura (28 a 27 per cento). A Verona il sindaco ha vinto finora due elezioni municipali a quota 60 per cento: era stata questa doppia performance – in una dei capoluoghi economici del Paese – a lanciarlo da subito sul palcoscenico nazionale, a farne – ante litteram – un “Renzi del centrodestra”. E’ stata la presumibile certezza di avere alle sue spalle il suo elettorato personale nella sua roccaforte – ancor più che il suo seguito di segretario regionale della Lega Nord – a spingerlo tre mesi fa a rompere clamorosamente con Zaia e soprattutto con il leader nazionale della Lega Nord, Matteo Salvini. Questa scommessa, alla luce dei dati di ieri, è stata sostanzialmente perduta: paradossalmente quando la Lega conferma un dominio assoluto in una delle regioni strategiche per il Paese, unica area in cui il Pd né soprattutto M5S mostrano una reale competitività.



A Tosi è stato fatale, fra l’altro, un dualismo storico nel Veneto, raramente favorevole all’area occidentale e invece strutturalmente a vantaggio dei leader “orientali”: dal democristiano rodigino Toni Bisaglia al suo erede trevigiano Carlo Bernini, al forzista padovano Giancarlo Galan, ancora al leghista trevigiano Zaia. Tutti proprietari pro-tempore di un vasto elettorato moderato che anche allora era sbagliato ridurre a “doroteo”. Anche Tosi a Verona è stato portato in alto da questo blocco, impastato di impresa piccola o non-più-tanto piccola , di solidarismo cattolico attento tuttavia alla tenuta sociale, di politica come amministrazione d’abord. Quando Tosi (in passato anche assessore regionale alla sanità) ha rotto con la Lega del governatore in carica, ha inevitabilmente messo a rischio una credibilità che in Veneto continua a essere fatta parecchio di questa “loyalty” pre-politica: a un certo “ordine istituzionale”, alla tutela localistica di una regione che nella globalizzazione è stata soggetto attivo.



Fra le conseguenze dello strappo di Tosi va anche annoverata la clamorosa crisi al vertice della Diocesi di Verona alla vigilia del voto. Il vescovo Giuseppe Zenti si è pronunciato a favore di una candidata della lista Zaia, ma è stato sorprendentemente contestato in tv dal suo portavoce, don Bruno Fasari, ovviamente subito dimissionario. Qualcosa di assolutamente inedito in una città come Verona: caratterizzata semmai dalla riservatezza del “government” da parte di una classe dirigente abituata a comporre conflitti e aggiustare equilibri lontano dai riflettori.