C’era un congedo atteso dal Consiglio dei ministri di oggi, ben diverso da quello “parentale” citato nel comunicato serale di Palazzo Chigi: quello di Franco Bassanini da presidente della Cassa depositi e prestiti. Può darsi che le stesse antenne che nel fine settimana scorso lo avevano preannunciato come cosa fatta filtrino quale indiscrezione utile: “Se n’è discusso, etc”. La realtà cambierebbe poco: il grande rilancio immaginato dal governo Renzi dopo l’insuccesso elettorale non sta partendo con il piede giusto.



Niente “effetto Putin” (salvo che per il presidente russo, l’altro ieri fra Milano e Roma). Strana melina sul doppio salto mortale della staffetta generazionale (“più cinquantenni in pensione subito/più ventenni occupati subito”): dopo i dubbi del presidente dell’Inps, Tito Boeri, anche il ministro Giuliano Poletti ha cominciato a frenare prima ancora del summit da lui convocato per lunedì con le parti sociali. Niente “super-piano banda larga”, mentre il Ceo (italiano) di Vodafone, Vittorio Colao, sulla Repubblica di Carlo De Benedetti ha gettato macigni nell’acqua stagnante del riassetto di Telecom e dell’intero settore tlc&media in Italia. Soprattutto: niente ribaltone alla Cassa depositi e prestiti, l’unico luogo nel Paese dove le famiglie fanno affluire il loro risparmio (attraverso le Poste); l’unica istituzione finanziaria del Paese ancora capace di mosse capitalistiche, per quanto sia controllata da Tesoro e Fondazioni bancarie.



Renzi può non aver torto – in teoria – a rivendicarne il controllo e quindi la possibilità di rimuoverne i vertici (oltre a Bassanini anche l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini) anche non sotto scadenza. Peccato che gli accordi di parziale “privatizzazione” della Cdp – ormai vecchi di una decina d’anni – prevedano che il presidente sia indicato dai soci di minoranza: cioè le Fondazioni dell’Acri, presieduta da Giuseppe Guzzetti. Un avvocato di professione, una lunga esperienza politica in Regione Lombardia e poi in Senato. Infine un leader delle Fondazioni, capace di ribaltare in due anni – ricorso dopo ricorso, sentenza dopo sentenza, fino a quella Corte costituzionale recentemente fatale per Renzi – un blitz dell’allora ministro Giulio Tremonti, paragonabile a quello del governo in carica sulle Popolari.



Nel 2004, oltre 60 delle 88 Fondazioni dell’Acri investirono un miliardo nella “nuova Cdp” siglando la pace con Tremonti: e quella co-gestione (proseguita da Tommaso Padoa-Schioppa e poi da Mario Monti) qualche sviluppo lo ha avuto. Nel 2015 Renzi pretende di espropriare le Fondazioni informandole via stampa, violando accordi scritti e minacciandole di un blitz “alla Tremonti” due mesi dopo che Guzzetti ha sottoscritto con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, un “atto negoziale” di progressiva autoriforma degli Enti. E fra una settimana, a Lucca, il XX Congresso dell’Acri rischia di diventare un inopinato foro di “resistenza”.

(Renzi, lo abbiamo già notato, finora non ha mai giocato davvero a monopoli con il big business nazionale: a parte firmare nomine al ribasso nelle grandi aziende pubbliche. La Cdp – e il riassetto Telecom, Rai, Mediaset, Sky – sono il suo primo test reale. Se non riesce a recuperare con un manipolo di presidenti-veterani di Fondazioni che – a differenza di lui – non devono dimostrare niente a nessuno e continuano a presidiare le grandi banche – anche in prospettiva le Popolari da trasformare in Spa – il premier rischia di farsi male. Più che con Mafia Capitale o con decine di migliaia di professori).