Su 40mila elettori, a Matera si sono costituite venti liste. Sette appoggiavano il sindaco uscente, Salvatore Adduce, e tredici lo sfidante, Raffaele De Ruggiero, che ha poi vinto, dall’alto dei suoi 79 anni di esperienza e di radicamento “trasversale” in città. Come pilotare, da Roma, l’esito di un voto del genere? E a Venezia? L'”usato sicuro” di Casson poteva essere protetto dallo scudo di Renzi contro l’impeto di Luigi Brugnaro, uno che parla come un ultrà leghista ma fa di conto come un imprenditore di successo? Proprio il Veneto, poi: a Chioggia votano in un modo, a Sottomarina nel modo opposto, due frazioni dello stesso comune divise da un ponte di 700 metri dove negli anni Novanta ancora per fidanzarsi “oltreconfine” era preferibile scappare di casa.
Questa è l’Italia dei 9mila comuni, l’Italia in cui Renzi vorrebbe calare il suo “partito unico” e su cui non solo Renzi ma da vent’anni – a chiacchiere – un po’ tutti vogliono stendere il sudario del premierato maggioritario puro, o di qua o di là, o bianco o nero, e al vertice un uomo solo a comando, “sindaco d’Italia”, che se vuole dimettendosi trascina con sé tutto il governo ed è quindi affrancato dalla tutela di tutti i partiti, compreso il suo.
Il merito di questo scampolo di elezioni comunali, ma anche – quindici giorni fa – delle regionali, è stato quello di ricordare al partito dei maggioritaristi ad oltranza che il modello è artificiale e costrittivo, qui in Italia, e che – se imposto oltre buon senso – scatenerà virulenti anticorpi. Ironia della sorte, la sconfitta del Pd di Renzi in tre città-chiave come Vicenza, Arezzo (nella “sua” Toscana) e Matera, capitale della cultura europea del 2019, cade nell’ottocentesimo anniversario della Magna Charta, primo atto istituzionale di spirito democratico che la storia ricordi nell’era moderna. Ebbene, la Charta all’articolo 12 vietava al sovrano di “imporre nuove tasse ai suoi vassalli diretti senza il previo consenso del “commune consilium regni”…
Sono ottocento anni almeno, dunque, che la democrazia è innanzitutto governo condiviso dell’economia, e quindi della fiscalità. Il disastro rappresentato dal federalismo imperfetto che vige oggi in Italia è una mina sotto la coesione sociale e fomenta la polverizzazione del consenso. Ma anche questo brutto federalismo è pur sempre qualcosa che àncora, sia pur malamente, il consenso al territorio. E Renzi sta dimostrando – Liguria docet, Veneto docet – di non essere uomo di territorio, troppo accentratore e malfidato com’è per dare spazio ai proconsoli.
L’uomo è però intelligente e dotato di molta astuzia politica, quindi ha tutte le potenzialità per far tesoro della lezione: però deve usarle, rinunciando a quella fetta di spocchia che innegabilmente il suo tumultuoso incedere a colpi di fiducia ha dimostrato, decretando – come ha fatto – su qualsiasi materia, per non-urgente che fosse, e oggi non decretando, forse perché non sa che decretare, sull’emergenza migranti: a proposito, un’altra piaga che allontana il territorio dal centro.
Questa favola, brutta, non ha alcuna morale. L’unica è che la mancanza di alternative corrobora Renzi più di un ricostituente; ma la mancanza di una strategia condivisa sul territorio può nuocergli più di una malattia. I primi sintomi li ha percepiti. Sta in lui correre ai ripari.