Sul ponte sventola bandiera bianca. Un quarto di secolo dopo, ammaina il vessilo rosso la Venezia proverbiale isola della sinistra nel Veneto forzaleghista. Ma sarebbe fuorviante e sommario arruolarla nel centrodestra, come si è affrettato a sottolineare con vigore il neo sindaco Luigi Brugnaro: la Lega si è inchiodata a un modesto 9 per cento; e Forza Italia non arriva neppure al 4 per cento, alla faccia dell’arrampicatore di specchi Renato Brunetta che la spaccia come una vittoria dei suoi: un partito che rimane allo sbando, tant’è che a suo tempo si era aggrappato perfino a una candidatura di Mara Venier. “Non è la Rai”, era la sigla di un mitico programma anni Novanta di Gianni Boncompagni: un sindaco non può essere una saponetta.



Come sempre nell’Italia della ciancia continua, a caldo si coglie la schiuma del voto anziché la sostanza. Che, abbinata alle elezioni regionali di due settimane fa, segnala piuttosto un dato di fondo: la vecchia e logora struttura dei partiti tradizionali cede il passo all’effimero del partito-persona; comunque due soluzioni mediocri, si spera legate alla lunghissima e sfibrante transizione dell’ingessato sistema politico nostrano, dunque destinate prima o poi a un ben diverso approdo. A suggerirlo è l’analisi dei risultati elettorali: in Regione, la Lista Zaia sopravanza di ben cinque punti quella ufficiale della Lega; a Venezia, la lista Brugnaro supera il 20 per cento, staccando di parecchie lunghezze le tradizionali sigle di partito. Che d’altra parte hanno fatto tutto per meritarselo, con una serie di misfatti che vengono da lontano.



Centrosinistra, Ulivo, Pd o che altro si chiami, l’area riformista in Veneto è un carro di Tespi “ab illo tempore”. Dalla cosiddetta seconda Repubblica in poi, le ha sempre buscate senza pietà dal centrodestra, dimostrandosi incapace di intercettare neppure le briciole della fu-Dc: dalle drastiche purghe iniziali di Rosy Bindi in poi, ha sistematicamente ceduto il campo agli avversari, per una sostanziale incomprensione degli spiriti animali del Veneto profondo, e per il progressivo rinchiudersi nella logica illogica dei vecchi apparati, a loro volta incapaci di affrancarsi dagli antichi marchi di appartenenza, sinistra Dc formato “bravi ragazzi” o versione “falce-e-martello” che fosse. C’è riuscito una sola volta, ma senza alcun merito proprio: alle europee dello scorso anno, ha raccolto più di Lega e Forza Italia messe insieme. Ma solo grazie al Pd secondo Matteo. Si è illuso che bastasse per fare il bis; ha preso una musata pazzesca.



Non che vada meglio dall’altra parte. Forza Italia si è letteralmente squagliata a causa del totale disinteresse del suo alfiere Giancarlo Galan per le cose di partito (a quanto pare dalle inchieste giudiziarie e dallo stesso patteggiamento, aveva altre priorità), e delle meschine risse da angiporto di periferia nelle singole province; con il risultato che oggi è ridotta a percentuali degne dei vecchi Pli o Psdi, insomma da ruota di scorta di una Lega peraltro salvata dall’effetto Zaia, dopo la traumatica rottura con Tosi.

Difficile pronosticare quale approdo possa avere questa liquefazione del vecchio. Perché le sole doti di amministrazione possono aiutare a gestire una città o una regione, non a garantire al Veneto quel peso politico cui ambisce invano da anni. Zaia si è guadagnato sul campo il pass per governare, ma non sembra avere il passo per incidere sulla linea politica della Lega nazionale. Brugnaro è un imprenditore apprezzato, ma da presidente di Confindustria Venezia ha raccolto più contestazioni che consensi, al punto da non venire riconfermato nell’incarico.

Ma al di là dei singoli personaggi, la politica (quella vera) non può restare a lungo fuori dal gioco. Inutile teorizzare che si apre una nuova era: in nessuna situazione della storia, né remota né recente, l’“uomo dei miracoli” ha rappresentato la formula vincente; tutti i presunti taumaturghi hanno fatto una mesta fine. Da sempre, il Veneto soffre dell’incapacità di fare squadra al suo interno, e di coagulare all’esterno le alleanze indispensabili per contare a Roma. Così si è rifugiato nella protesta ad oltranza: rumorosa sì, ma improduttiva. Al punto che l’unico suo vero leader riconosciuto al di sotto del Po è un esponente di tutt’altra quanto antica forza, la settecentesca lista Goldoni: sior Todero brontolon.