Sui risultati delle elezioni regionali del 2015 le riflessioni sono appena cominciate, ma tutti sembrano esorcizzare un dato negativo: quello della scarsa partecipazione.

Già sette mesi fa si era registrato un tracollo al voto per l’Emilia Romagna (37,67%) e la Calabria (44,07%). Adesso la media del calo di affluenza al voto rispetto al 2010, quando era del 64,13%, è di oltre il 10%, assestandosi al 53,9%; però, Toscana e Marche sono sotto il 50% e la regione dove si è registrata la maggiore affluenza è stata il Veneto, con il 57,16%.



Anche in altre elezioni, come quelle europee del 2014, si è registrata la medesima tendenza con il passaggio dal 66,3% del 2009 al 58,7%; tendenze analoghe, se non peggiori, si sono registrate anche negli altri Paesi europei, con performaces mediocri per Francia e Germania (con poco più del 40%) e minimali per la maggior parte degli altri Paesi dell’Ue, come Regno Unito, Polonia e Croazia (intorno al 20/25%) e persino infime per alcuni Stati: Repubblica Ceca (19%) e Slovacchia (13%). 



Sotto il 50% è pure il recente voto delle amministrative in Spagna e anche l’affluenza alle elezioni politiche generali ormai soffre: così già in Italia nel 2013 e così anche nel Regno Unito poche settimane fa.

Quale segnale arriva da questo calo di affluenza alle urne? Gli europei si sono stancati di votare? E, se sì, perché?

Chi non vota è come se delegasse chi vota a decidere anche per lui e il risultato è comunque legale. Questo, però, è vero solo se chi non vota è una sparuta parte del corpo elettorale. Quando invece l’astensionismo diventa crescente e vieppiù consistente, sino a superare il 50% degli aventi diritto al voto e a ridurre i votanti ad una minoranza, non ci si può accontentare più della legalità del voto. Si apre, infatti, una questione di legittimità del voto e di legittimazione democratica da parte di chi assume la rappresentanza del corpo elettorale in un’assemblea rappresentativa.



Se l’astensione è elevata, viene meno l’idea che chi non vota ha delegato chi vota a decidere e si apre la discussione sull’astensione come insoddisfazione verso una classe dirigente, come rifiuto un po’ di tutte le proposte politiche presentate dai partiti e come contrapposizione del corpo elettorale verso i diversi governi: locali, regionali, nazionali ed europei.

Ora, l’insoddisfazione, il rifiuto e la contrapposizione sono il frutto di un’evoluzione post-democratica dei sistemi di governo. Quando ancora c’era la democrazia, questa non si limitava all’espressione del voto, ma implicava una molteplicità di strumenti di partecipazione pubblica. Il voto era semplicemente il culmine della vita politica, ma prima vi era l’elettorato fedele, l’ideologia professata, la militanza politica, e il partito, che costruiva forme di convivenza con la sua organizzazione e la sua attività, fatta di riunioni, comizi, feste, ecc.

Oggi, invece, i partiti politici non offrono un’organizzazione partecipativa, o un’attività coinvolgente, anzi vedono con un certo fastidio i militanti; e quando vanno al governo, studiano riforme che riducono la democrazia o la rendono virtuale. I partiti in Italia sono stati tutti d’accordo nel cancellare livelli di rappresentanza politica fondata sul voto diretto dei cittadini; adesso va di moda la rappresentanza di secondo livello, fatta di politici che eleggono altri politici. Perfetto!

E i cittadini?

Hanno compreso perfettamente che la classe dirigente non rappresenta i loro bisogni e non soddisfa le loro aspettative, che i partiti sono piccole oligarchie e che i governi sono preda di interessi finanziari internazionali e di lobbies potenti e oscure. Così la coesione tra governanti e governati, vera sostanza della democrazia di un Paese, si è consumata e non esiste più.

I cittadini diffidano della classe politica, disertano il voto, considerandolo una pratica sempre più estranea che non i rappresenta e temono ormai l’oppressione fiscale e persino fisica del proprio governo; e questo, proprio questo, da garante della sovranità del popolo, si atteggia ora a “guardiano” del popolo.