Le recenti amministrative hanno insegnato che i ballottaggi, come quello di Venezia, e non solo, si possono perdere; non conta il risultato del primo turno, adesso gli altri votano contro di te e sono la maggioranza.
Renzi, che aveva fatto del ballottaggio nell’Italicum il suo punto di forza, ora che la legge elettorale è stata approvata non intende metterla più in discussione; offre semmai, alla minoranza dem e alle opposizioni, la possibilità di modificare la composizione del Senato. Un doppio errore; e l’offerta, se dovesse eventualmente essere accettata, farebbe allo stesso modo commettere un errore a chi l’accetta.
L’effetto è sotto gli occhi di tutti, l’Italicum può portare al governo — anche a dispetto — minoranze molto piccole, senza più il rispetto del principio di maggioranza che legittima chi governa nelle democrazie. Ma il peggio è che il vincitore avrebbe sempre i piedi d’argilla. Infatti il leader vincitore ha diritto a 350 seggi; i 100 capilista sono uomini nominati da lui, mentre i 250 restanti sono candidati che si sono conquistati il seggio con le loro preferenze; a questi non sarà facile impartire ordini, poiché si tratta di politici conviti di avere un’investitura e una legittimazione che deriva loro non dal leader, bensì direttamente dagli elettori. Saranno sufficienti 50 eletti di questo tipo per mettere in crisi la leadership, in nome del peso della rappresentanza. Accadrà perché ormai non vi è più la coesione di un autentico sistema politico dei partiti.
Modificare la legge elettorale sarebbe un bene, non solo per Renzi o per il M5S, o per il centrodestra, ma per il Paese e la democrazia.
D’altra parte tornare a un Senato direttamente elettivo sarebbe un errore, perché le ragioni e i motivi per la fine del bicameralismo perfetto non erano meramente economici (spendere meno per la classe politica), bensì legati alla necessità, accanto a quella politica, di una rappresentanza territoriale delle Regioni in una camera parlamentare. Un principio cardine della riforma proposta; se dovesse saltare, la riforma stessa risulterebbe incomprensibile.
Si osserva, da parte di chi dovrà accettare quest’offerta, che in questo modo si potrebbe dare vita a un Senato di garanzia, grazie anche ad un sistema elettorale appositamente proporzionale.
Ora, una profonda diversità nella composizione di due camere parlamentari (una ipermaggioritaria e l’altra iperproporzionale) che comunque dovranno avere dei momenti di contatto, anche se non il conferimento della fiducia al governo, finirà con il paralizzare l’azione parlamentare, e la colpa sarà non del proponente, bensì dell’accettante.
Inoltre, mentre una camera politica e una territoriale esprimerebbero una logica, due camere direttamente elette, ma con poteri differenti, farebbero perdere il senso della riforma e darebbero vita a due classi politiche: una di serie A, con il potere di fiducia e la pienezza del potere legislativo, e l’altra di serie B, anche se formalmente la seconda avrebbe la medesima legittimazione della prima per via del medesimo voto popolare. I cittadini comprenderebbero ancor meno la politica e i politici di serie B vivrebbero solo per vendicarsi dei politici di serie A.
Infine — nel merito — le garanzie su cui giocare per qualificare il Senato elettivo dovrebbero avere di mira i diritti dei cittadini, le autonomie territoriali e l’amministrazione pubblica. Tutte questioni su cui l’attuale leadership non sembra intenzionata a concedere alcunché.
La verità è che governare è un’arte diversa dallo scrivere leggi, anche costituzionali; governare significa fare funzionare i servizi, produrre beni e prestazioni pubbliche, essere in grado di risolvere i conflitti e di prevenire i problemi. In una parola, governare significa realizzare un “buongoverno” e l’Italia sembra non avere più di questi artisti.