Se si pensa che solo un paio di mesi fa, alla fiera annuale del Def, il Governo annunciava alla stampa il ritrovamento di un tesoretto (virtuale) di 1,6 miliardi nello scarto tra deficit tendenziale e deficit programmato, ci si rende conto che qualcosa è cambiato, ed è cambiato velocemente, nel clima politico del Paese. Ieri l’Avvocatura di Stato, nelle more dell’udienza calendarizzata avanti la Corte costituzionale per il 23 giugno, ha reso noto in anticipo il maggior costo che avrebbe per le finanze pubbliche l’annullamento del blocco della contrattazione nel pubblico impiego disposto ancora nel 2010 dal Ministro Tremonti e che è stato protratto ininterrottamente fino a oggi.



Si tratta di un conto approssimativo di 35 miliardi complessivi per il passato e di un aggravio di spesa di 16 miliardi per il 2016 che si va ad aggiungere al conto, già piuttosto salato, che il governo dovrebbe pagare in seguito all’annullamento della disciplina di blocco dell’adeguamento delle pensioni introdotta dal Governo Monti (20 miliardi approssimativi, ma non si sa con certezza). E che, in lucida e consapevole elusione del giudicato costituzionale, sta tentando di non pagare, ricorrendo all’espediente del bonus agostano per le pensioni più basse e scoraggiando gli eventuali ricorsi dei pensionati esclusi dal “gettone” di 2 miliardi elargito dal Governo. 



Di per sé non è una grande notizia. La notizia, semmai, è che il Governo sta mettendo le mani avanti, cercando di scaricare sulla Corte costituzionale la responsabilità politica di un aggiustamento dei conti pubblici che dovesse discendere da un nuovo, eventuale annullamento del blocco a fine mese. 

Nelle settimane scorse, intervistato da Cazzullo sul Corriere, e nel bel mezzo della compagna mediatica contro la Corte, il Presidente Criscuolo, sollecitato dall’intervistatore a giustificarsi per il buco di bilancio causato al Governo, rispondeva: “Non erano dati di cui disponevamo. E poi noi non facciamo valutazioni di carattere economico”. Da qui polemiche contro l’Avvocatura di Stato che non avrebbe difeso bene il Governo, e non avrebbe messo la Corte davanti alle sue responsabilità all’atto di prendere una decisione.



Stavolta la Corte è stata servita. È stato reso noto alla stampa che, se a fine mese la Corte, per ventura, decidesse di annullare un blocco che si protrae da 5 anni, la responsabilità di un aggravio del bilancio pubblico sarebbe tutta dei componenti di “Villa Arzilla”: ossia di una compagine di ottantenni un po’ duri d’orecchio che si pronuncia senza essere consapevole delle conseguenze che, nel mondo reale, avrebbero le loro decisioni. Questo – leggere per credere – è il senso dell’articolo uscito sul principale quotidiano nazionale all’indomani della sentenza Sciarra sulle pensioni. E questo è l’appellativo che viene garbatamente rivolto a giudici che hanno il fastidioso compito di verificare che le politiche governative (in realtà le politiche di Bruxelles e della Bce) siano compatibili con la Costituzione. 

Così stando le cose si può immaginare quale sarebbe il seguito a fine giugno. Le nuove e maggiori tasse per pagare gli stipendi del pubblico impiego sarebbero tutta responsabilità della Corte costituzionale. Per non parlare della nuova guerra tra poveri che si scatenerebbe tra dipendenti pubblici e privati. O che si scatenerebbe tra settori della funzione pubblica in cui questo blocco è stato eliminato dopo una settimana di proteste e settori in cui questo blocco permane da 5 anni ed è destinato a permanere sine die

Non è niente di inedito. Nel 2013 in Portogallo ci si era trovati in una situazione molto simile, quando la Corte costituzionale aveva bocciato la finanziaria pro-austerity di Passos Coelho che tagliava pensioni, sussidi di disoccupazione, riduzione dei congedi per malattia e mensilità dei dipendenti statali (la quattordicesima!) nella misura del 3% del Pil. Il tutto, naturalmente, nel rispetto del memorandum siglato dal governo portoghese con la Troika in cambio di finanziamenti.

Certo, l’Italia non è stata commissariata come il Portogallo nel 2013. Ma è solo questione di forme. Il “Bruxelles Consensus” che la Troika (le Istituzioni, come ora Bce, Fmi e Commissione si fanno chiamare in Grecia) ha applicato in Portogallo è identico alla ricetta che stava scritta nella famosa lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011, per cui “ il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi”. 

Gli stipendi nel pubblico impiego non sono stati ridotti nominalmente. È stato tenuto fermo, per il momento, il principio della stabilità del posto di lavoro (ricordiamo le polemiche sull’applicabilità del Jobs Act al pubblico impiego e attendiamo la riforma della Pa in gestazione). È solo stato disposto il blocco delle retribuzioni. Ed è stato abbassato dal 2011 a oggi il numero dei dipendenti pubblici. E, con i tempi che corrono, vi volete anche lamentare? Come ragionamento non fa una grinza, così come non fa una grinza il ragionamento di Cazzullo sugli attempati signori di Villa Arzilla. 

Solo che questo ragionamento presuppone un passaggio. Che ormai a governare siano gli atti di indirizzo provenienti da Bruxelles (o da Francoforte). E che la Costituzione sia vincolante nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con gli obblighi derivanti dalla partecipazione alla moneta unica e ai Trattati. Fermo restando che, in caso di conflitto tra Costituzione e Trattati, a cedere deve essere la Costituzione: o, meglio una costituzione ridotta a pareggio di bilancio (art. 81) ed “equità” (art. 3), come molti illustri costituzionalisti hanno sostenuto dopo la sentenza del maggio scorso. 

Esattamente il contrario di ciò che ha stabilito negli anni la Corte costituzionale tedesca, quando ha affermato, a più riprese dal 2009 a oggi, che i Trattati sono vincolanti, per l’ordinamento tedesco, nella misura in cui siano compatibili con la costituzione federale. Ma ormai è evidente che, nell’Europa delle “cessioni” asimmetriche di sovranità non tutte le costituzioni sono uguali. E neanche tutte le Corti possono permettersi di esserlo.