Le nuove povertà sono tutte nei dati. Nel 2014 i fallimenti dichiarati hanno superato le 15mila unità e 104mila aziende hanno chiuso i battenti, nell’ultimo trimestre del 2014 sono state dichiarate fallite 4.479 imprese. Il Cerved, che ha elaborato i dati, li commenta dicendo che si tratta del massimo storico osservato in un singolo trimestre dal 2001. Per Stefano Elli, giornalista del Sole 24 Ore da sempre sulla frontiera calda fra economia e legalità, è una notizia, grossa e preoccupante. Almeno quanto quella – efferrata – del quadruplice omicidio a Palazzo di giustizia di Milano da parte di un imprenditore spregiudicato. “Chi analizza le statistiche, di solito, le commenta in modo asettico – dice Elli al Sussidiario.net – , con il tono neutro e rassicurante del pilota che annunci un ritardo sui tempi di atterraggio. Chi invece con l’occhio del cronista ha l’abitudine di guardare la città e i suoi mutamenti nelle semiperiferie ma anche nel centro”.
Siamo al secondo mese di Expo: perché parli di povertà a Milano?
Ogni giorno a palazzo di Giustizia io e gli altri colleghi siamo testimoni di un massacro, un massacro quotidiano: in sezione fallimentare prima ancora che in quello penale. E’ il luogo simbolo dell’afflizione di chi era saldo sulle proprie gambe e ora non lo è più. Di chi credeva in se stesso e ora non è più nulla e, quel che è peggio, come nulla si autopercepisce. Di chi aveva una casa e se ne vede privato. E poi ciascuno si ritrova soprattutto solo con se stesso in quel corridoio del secondo piano. E sono molti quelli che non assomigliano affatto a Claudio Giardiello: che non hanno alle spalle vite di avventurieri.
Cos’è che ti colpisce di più alla sezione fallimentare?
Le voci di curatori fallimentari, avvocati, commercialisti creditori e debitori, si sovrappongono in crescenti brusii di finto cameratismo che nasconde e forse vuole esorcizzare tensioni, angoscie e insonnie note soltanto a chi le stia vivendo. Nessuna comprensione per chi decide di togliere la vita a un essere umano. Chiunque sia. Ma una riflessione va elaborata. Anche perché il florilegio sui social network di commenti cinici, laschi o comunque comprensivi nei confronti delle ragioni dell’omicida, lasciano intendere un malessere diffuso, non tanto verso il ceto dei giudici o degli avvocati ma proprio per il divaricarsi crescente tra la severità delle norme sul fallimento e la drammaticità delle condizioni di vita di molte famiglie.
La legalità scritta dalle norme non sempre funziona con gli uomini in carne ed ossa?
Non c’è dubbio che la nostra normativa fallimentare sia garantista per i “grandi” debitori, e inflessibile con i piccoli. Una normativa che sembra vivere di vita propria, algida, immutabile, fissa e indifferente agli sconvolgimenti sociali in corso. Indifferente alle devastazioni psichiche vissute da chi perde, in questo esatto ordine, il proprio lavoro, la propria casa, la propria famiglia. Certo: la legge deve fare il suo corso. Chi deve del denaro è giusto che lo restituisca.
Chi ha sottoscritto un mutuo è giusto che lo rifonda. Questa è la base del nostro vivere civile. Ma è giusto che se non puoi più pagare insieme alla proprietà ti venga sottratto anche il ben più reale dei diritti: quello alla dignità? E giusto, parafrasando Cesare Pavese lasciare degli esseri umani “Soli per essere sempre più soli?”.
Cosa si può fare?
Qualcosa si muove nella società civile. A Brescia è nata Guber, una finanziaria di gestione dei crediti di Brescia. Con un’idea innovativa: creare un fondo d’investimento con il quale acquistare immobili pignorati e venduti alle aste fallimentari. E consentire nello stesso tempo che i vecchi proprietari possano continuare a vivere nelle “loro” case. Pagando canoni d’affitto calmierati, oppure concedendo loro una seconda possibilità: quella di un’opzione di richiamo che consenta loro, a certe condizioni, ed entro un certo numero di anni, di rientrare in possesso del proprio bene. Sulla scorta di questo potrebbe essere tentata anche una carta diversa: una modifica legislativa che consenta a coloro che perdono la proprietà della propria casa, a determinate condizioni valutabili volta per volta dal giudice fallimentare, di continuare a usufruirne, naturalmente pagando un canone di affitto proporzionato. Da parte della politica sarebbe un segno preciso di presa di coscienza e di avvicinamento a una realtà sociale cui ci si accosta, sembra, soltanto quando il disagio esplode in tutta la sua efferata carica di violenza.