Sarà solo un caso, ma Matteo Renzi ha sferrato il suo durissimo attacco ai sindacati giusto un attimo dopo aver avuto la certezza di poter contare sul sostegno di Denis Verdini. Per la sinistra interna è stata la conferma dei peggiori sospetti sulle intenzioni del premier-segretario. E la promessa di un autunno caldo si è trasformata nella tentazione di un’estate rovente, e non per semplici ragioni meteorologiche.
Ci sono ancora due settimane di attività parlamentare prima della pausa estiva, e la tentazione di mandare un messaggio forte a Palazzo Chigi cresce di giorno in giorno. Troppa carne al fuoco, decreti legge e temi chiave, su cui far scivolare il governo, dalle intercettazioni telefoniche alla riforma della Rai. Basta un emendamento sgradito all’inner circle renziano, magari al riparo di qualche voto segreto. In Senato ci vuol poco, poi la battaglia minaccia di divampare a settembre, tanto sulle riforme costituzionali, quanto all’interno del Pd.
Fra le frastagliate anime della sinistra democratica non ci sono dubbi: l’operazione di avvicinamento all’area governativa è avvenuta con la regia interessata di Palazzo Chigi, nella persona del sottosegretario alla presidenza, Luca Lotti. Se arrivassero persino Sandro Bondi e Manuela Repetti (che già votano con la maggioranza), il quadro sarebbe completo. Un film dell’orrore, secondo il giudizio di Speranza.
Poco importa se nell’immediato Verdini non riceverà alcun compenso in termini di posti di sottogoverno. Quel che conta è che la decina di voti che l’ex sodale di Berlusconi è in grado di spostare nell’emiciclo di Palazzo Madama potrebbero essere usati come arma di pressione (se non di ricatto, dicono i più arrabbiati) proprio nei confronti degli oppositori di Renzi dentro il Pd.
In una situazione in cui oggi il governo può contare solo su una decina di voti in più della maggioranza assoluta, altri 10/11 consensi consentirebbero al premier-segretario di sterilizzare quasi completamente il peso dell’area dei dissenso, valutata intorno a 20/22 senatori critici. Sempre ammesso che questa posizione di distanza abbia il coraggio di trasformarsi in un voto apertamente contrario.
Ma i fatti spingono a scelte drastiche. Renzi attacca i sindacati dopo i casi Alitalia e Pompei, e flirta più con Confindustria e Confommercio che con Camusso, Furlan e Barbagallo. Semplicemente inconcepibile. Lo stesso annuncio dell’intervento per abbassare le tasse – per quanto accolto con sufficienza – non può che suonare di destra, specie quando si accenna a possibili nuovi tagli alla sanità. E ci mancava pure la grana dell’Ici per le scuole paritarie (che impone un intervento urgente) per far dire a qualcuno che l’operazione Verdini costituisce una pistola puntata contro la minoranza interna.
A settembre, dunque, lo scontro sarà inevitabile, a meno di non voler alzare definitivamente bandiera bianca di fronte a un Renzi accusato ormai di aver messo da parte i sogni dell’epoca delle europee a favore di una gestione del potere fine a se stessa. Nei corridoi di Montecitorio in questi giorni i deputati dem dissidenti si interrogavano su cosa fare per cercare di riprendersi il partito, anche perché nessuno aveva intenzione di abbandonare la nave senza combattere. Chi si trovava scomodo, è già sceso da tempo.
Sondaggi riservati indicano lo spazio di una formazione elettorale a sinistra del Pd intorno al 7%. Ma ci sono troppi galli a cantare in quell’area, oltre ai fuoriusciti del Pd Fassina, Civati e Pastorino: C’è Sel, l’area ex Lista Tsipras, la coalizione sociale di Landini, quel che resta di Rifondazione e altri gruppuscoli. Landini, appunto, sarebbe il leader più spendibile, e in quel caso si potrebbe anche arrivare intorno al 10%. Il problema – per ora insormontabile – è proprio individuare una leadership riconosciuta, che metta ordine in una galassia convulsa e caotica.
È questa assenza di leadership che insieme non attira chi è ancora nel Pd e lascia dormire a Renzi sonni relativamente tranquilli. Anche se la novità della sua azione politica appare in questa fase appesantita e appannata come mai prima, il premier rimane convinto di poter continuare la sua azione di governo per totale assenza di alternative. In queste settimane conta di mettere a punto nel dettaglio quel cambio di passo che ha in mente per l’autunno e che ha cominciato a descrivere all’assemblea nazionale del Pd che si è riunita a Expo.
I suoi fedelissimi contano che a sinistra del Pd lo spazio alla fine sia molto meno del 7%, al massimo del 5%. Al contrario, con la proposta dal sapor berlusconiano del taglio delle tasse è sicuro di poter recuperare una quantità assai superiore di consensi fra il ceto medio e produttivo, orfano ormai tanto di Berlusconi, quanto di Monti, e che – lui ne è certo – non si getterà mai nelle braccia di Salvini.
Il rischio di un calcolo sbagliato rimane però in agguato, sia perché una buccia di banana è sempre dietro l’angolo (Marino e Crocetta sono spade di Damocle sul futuro del Pd, tanto per fare un esempio), quanto perché gli avversari non stanno fermi, e i sondaggi danno nonostante tutto un Movimento 5 Stelle mai così in salute dalle elezioni 2013. A commettere un tragico errore di valutazione ci vuole un attimo.