La sospensione della sospensione del neo-proclamato presidente della Campania, pronunciata in via d’urgenza dal giudice competente in attesa dell’udienza del prossimo 17 luglio, è stata salutata in diverso modo. C’è chi esulta per la raggiunta stabilità dell’assetto politico campano, perché così si può avviare la legittima costituzione della Giunta in ottemperanza all’esito della consultazione elettorale. E c’è chi denuncia la sostanziale debolezza di chi si accinge a governare la Regione, perché l’esito finale è ancora ammantato dall’incertezza di una lunga stagione che sarà scandita da udienze, sentenze ed appelli, sino alla Cassazione, oltre, ovviamente, alla già adita Corte costituzionale.
Le posizioni, a ben vedere, non coincidono con quelle tradizionalmente sostenute dalle contrapposte forze politiche, e che anzi sono qui curiosamente ribaltate. Anche chi aveva affiancato le tesi più vicine al giustizialismo, si trova a sostenere le ragioni del voto popolare e dell’efficienza delle istituzioni rappresentative. Mentre chi aveva pronunciato aspre critiche nei confronti delle invasioni di campo da parte della magistratura, sostiene adesso la più rigida applicazione di norme che pure lasciano ampio spazio all’azione della magistratura sulla classe politica, finendo così per ammettere la prevalenza della prima sulla seconda.
E’ evidente che la strumentalità delle argomentazioni non deve far premio sull’osservazione di una situazione dai tratti a dir poco paradossali e sulle tante responsabilità di chi vi ha, a vario titolo, concorso. Abbiamo assistito ad un neo-presidente della Regione che per vari giorni, si è – correttamente, dal suo punto di vista – sottratto a qualunque atto ufficiale, pur presenziando anche a riunioni presso Palazzo Chigi. Abbiamo sentito le più disparate voci sull’atteggiamento dell’esecutivo che, dopo aver atteso nell’indecisione sino a lasciar balenare l’ipotesi del decreto-legge, poi è addivenuto alla tesi più ovvia e ragionevole dal suo punto di vista, cioè provvedere alla sospensione e lasciare che la questione si risolvesse in via giudiziaria. Assisteremo finalmente alla nascita di una giunta voluta – giustamente, dal suo punto di vista – dal neo-presidente eletto e che sarà, a seconda delle pronunce espresse dai giudici variamente interpellati, guidata prima dal neo-presidente e poi eventualmente dal suo vice (e viceversa), e comunque costantemente, sino all’esito definitivo della questione, sottoposta ad un costante “pregiudizio” negativo, rivestito da più o meno sincero legalismo, diffuso da chi vi si oppone.
La legittimazione della classe politica tutta, non solo a livello locale, ne esce fortemente danneggiata, e con essa la stessa fiducia dei cittadini sul rispetto di alcuni essenziali principi dello Stato di diritto e sul senso vero della democrazia rappresentativa. Ci si può fidare di chi ci governa, se, dal momento della sua candidatura, è accusato di non rispettare le leggi e se tale accusa resterà in piedi per chissà quanto tempo?
E’ evidente che la legge, così come è scritta, non funziona: sulla incandidabilità – e di questo si deve trattare, e non certo di “sospensione dalla carica” in seguito a condanne non definitive – occorre pronunciarsi in via definitiva prima delle elezioni, non dopo.
Come insegna l’esperienza, il miglior governante è colui che è capace di guidare i processi politici in modo che non si rivolgano contro gli interessi della sua collettività. Fino a quando i soggetti che si muovono nel mondo della rappresentanza, a partire da chi anima e controlla i partiti, si muoveranno in senso contrario a questo principio, la presenza della magistratura sarà sempre più evidente. Non si tratta di un destino inevitabile, ma di un esito che si può impedire. Basta volerlo.