Lorenzo Guerini traccia la linea di demarcazione: la scissione non dovrebbe essere nel nostro vocabolario, dice il numero due democratico. Lo spettro, però, è proprio quello, anche se il meno spaventato di tutti è Matteo Renzi. I toni della minoranza interna non sono mai stati così aspri, ma il leader è intimamente convinto di avere il Pd in pugno, anche se il prezzo da pagare potrebbe essere alto.
Gli scenari possibili sono sostanzialmente due: o la minoranza arriva sino in fondo, e quindi c’è la rottura, oppure china la testa. La resa di Renzi semplicemente non è contemplata. Al massimo qualche concessione, poco più che marginale, come spiega il solito Guerini: ciò che conta è che sulle riforme non si torni al punto di partenza.
I margini di manovra sono però minimi. La minoranza dem vuole a tutti i costi il Senato elettivo, il quartier generale di Largo del Nazareno è disponibile al massimo a concedere un meccanismo che colleghi la designazione dei futuri senatori con i listini delle elezioni regionali. Una proposta formulata da tempo da Zanda e Finocchiaro, che il ministro Martina (ex oppositore di area bersaniana) e il sottosegretario alle riforme Pizzetti si sono incaricati di rilanciare. Troppo poco, secondo Vannino Chiti, che vuole la radicale revisione dell’articolo 2 del testo di riforma costituzionale. Ma la cosa riporterebbe al punto zero il percorso. Si tornerebbe al primo dei quattro passaggi parlamentari su testo identico previsti dall’articolo 138 della Costituzione.
La minoranza dem ha trovato un alleato per certi versi inatteso nel presidente del Senato, Pietro Grasso. Due settimane fa, alla cerimonia del Ventaglio, ha detto chiaro che nel testo c’è un’evidente contraddizione che deve essere corretta intervenendo proprio sull’articolo 2. In caso contrario i sindaci eletti senatori, uno per regione, rimarrebbero a Palazzo Madama anche se il loro mandato da primi cittadini dovesse finire prima della conclusione di quello di senatori.
In questa crepa intendono infilarsi gli oppositori interni di Renzi, oltre ai 5 Stelle e ai leghisti, con il diluvio dei 500mila emendamenti a firma Calderoli. La loro sfida è molto politica, e ha scelto il terreno delle riforme proprio per le evidenti pecche del testo già emendato alla Camera. Forse il Jobs Act, la scuola, o la legge elettorale sarebbero stati campi più facilmente spiegabili all’opinione pubblica, specie quella di sinistra. Sulle riforme costituzionali, però, Renzi è più debole, sia per la fine del patto del Nazareno con Berlusconi, sia per la difficoltà a ricorrere a uno strumento coercitivo forte come la questione di fiducia, già utilizzata a profusione, ben 44 volte in 534 giorni, Italicum compreso.
Sulla carta, quindi, mai come in questo momento Renzi è vicino alla crisi di governo. Fra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare. Ha un bel dire Roberto Speranza (uno dei più accreditati per il ruolo di capo della fronda interna) che tocca al premier-segretario tenere unito il Pd. E’ tutta da dimostrare infatti la volontà di arrivare sino in fondo, costi quel che costi, anche a prezzo di rendersi responsabili di una crisi di governo.
Sulla scarsità di coraggio dei suoi contestatori interni Renzi ci ha marciato e intende marciarci anche in futuro. Un manipolo di quelli che volevano andarsene lo ha già fatto (Fassina in testa), e l’unico effetto concreto è stato perdere la Liguria a causa di Pastorino. Il grosso è rimasto. Mugugna, ma non sembra intenzionato a muoversi. Un immobilismo frutto un po’ dalla convinzione di poter riprendersi il partito, un po’ dalla paura del vuoto, di quel che può accadere al di fuori del Pd. In più, nella galassia degli oppositori ci sono troppi galli a cantare. Molti colonnelli e pochi generali, e un’assenza totale di un piano alternativo da contrapporre allo strapotere del premier-segretario.
Tutte queste considerazioni sono perfettamente chiare e presenti a Renzi, che è molto più tranquillo dei suoi fedelissimi. La sua convinzione è di essere di fronte a una sfida win-win. Tanto se si arriverà alla scissione, quanto se la fronda chinerà il capo lui ne uscirà da vincitore.
Se sarà spaccatura, chi ne sarà responsabile non avrà alcun futuro politico, dal momento che sarà automaticamente fuori dal partito. Il che vuol dire fuori dal parlamento se si arriverà a uno show down elettorale: tutti gli oppositori saranno automaticamente fuori dalle liste per avere disatteso le indicazioni del partito. E un nuovo contenitore non è pronto ad accogliere i responsabili della rottura, essendo troppi i cantieri alternativi al Pd renziano. Il prezzo da pagare sarà alto, ma non condannerebbe certo Renzi a dover passare la mano, e uscire di scena. Neppure se si dovesse votare con il Consultellum e se dopo il voto fosse necessario un governo con Berlusconi. Le responsabilità, agli occhi della propaganda renziana, ricadrebbero interamente sui congiurati responsabili di aver pugnalato il premier-segretario.
Se poi le paure dovessero prevalere, la vittoria di Renzi sarebbe completa, e la fronda condannata alla marginalità. Ecco perché durante le vacanze i sonni del presidente del Consiglio non si preannunciano affatto agitati.